lunedì 14 dicembre 2009

Card. Ratzinger: Una Chiesa senza teologia immiserisce e diventa cieca; una teologia senza Chiesa si dissolve nell’arbitrario (1986)


Il Cardinale Ratzinger su teologia e Chiesa

ROMA, sabato, 7 novembre 2009 (ZENIT.org).

Pubblichiamo di seguito la lezione sul tema “Teologia e Chiesa” tenuta dal cardinale Joseph Ratzinger, il 22 marzo del 1986, a Brescia, durante un incontro organizzato dalla redazione italiana della rivista cattolica internazionale “Communio”.

* * *

«Nessun cristiano intelligente vorrà contestare il fatto che la custodia della Parola di Dio tra gli uomini è affidata alla Chiesa soltanto».
Non sono parole di un funzionario di curia, fossilizzato nella routine del suo ufficio, in grado di vedere soltanto le sue competenze e ormai incapace di percepire la complessità dei problemi. Si tratta invece di un giudizio che fu formulato nel 1935, nel momento culminante della lotta tra la Chiesa e lo Stato, da un discepolo di Rudolf Bultmann, che si trovava in prima linea nella Chiesa confessante evangelica e che, in un discorso di incitamento e di supplica, richiamava la Chiesa alla sua responsabilità nei confronti dell’insegnamento teologico. Si tratta di Heinrich Schlier che, con queste parole, aveva tutt’altro che teorie puramente accademiche o istruzioni burocratiche.
Il tentativo, da parte dello Stato, di fare del cristianesimo luterano un cristianesimo tedesco, rendendolo così utilizzabile ai fini del totalitarismo del partito, aveva aperto gli occhi a lui come a molti dei suoi compagni di strada: la teologia è nella Chiesa e dalla Chiesa, oppure non è.
Quel giudizio è al tempo stesso scelta esistenziale: significa la rinuncia all’insegnamento nella Università. Di questo insegnamento non poteva più farsi carico una Chiesa divenuta timorosa e irresoluta; nella sua apparente libertà accademica, esso in realtà si era reso fantoccio del potere dominante, era ormai pronto a cadere preda del partito. In quella situazione, era diventato chiaro che la libertà della teologia sta nel suo legame con la Chiesa; che con ogni altro genere di libertà la teologia tradisce se stessa e ciò che le è affidato. Era diventato chiaro che non ci può essere un magistero teologico se non c’è un magistero ecclesiale. La teologia, infatti, non avrebbe allora altra certezza se non la certezza che è propria di una qualsiasi delle «scienze umane»; vale a dire, la certezza dell’ipotesi, intorno alla quale si può disputare, ma sulla quale nessuno può impegnare la propria vita. Se così fosse, sarebbe una pretesa assurda per la teologia quella di voler essere qualcosa di diverso da una storia, o magari da una psicologia o una sociologia o anche una filosofia del cristianesimo.
Quel modo di vedere si impose allora con lucida incisività, anche se non fu affatto riconosciuto come evidente dalla maggioranza dei teologi.
Esso divenne la linea di discriminazione tra la scelta liberale, che in ogni modo passò presto al servizio del totalitarismo, e la decisione in favore della Chiesa confessante, decisione che era allo stesso tempo in favore di una teologia legata alla professione di fede e con ciò alla Chiesa docente. Al giorno d’oggi, in un momento storico di maggior pace esteriore, i contorni non si possono vedere con altrettanta nitidezza. Certo, dei teologi cattolici non contesteranno, almeno in linea di principio, l’esistenza di un magistero. Quanto a questo punto, è indubbio il vantaggio che la tradizione della Chiesa con il suo ordinamento rap­presenta per i cattolici, altrimenti da quel che avviene nella storia (Tradition) della Riforma. Però, oggi, nella coscienza diffusa della teologia cattolica, ciò che c’è di necessario e di positivo nel Magistero ha perduto la sua evidenza. L’autorità della Chiesa appare come un’istanza estranea alla scienza, un’istanza che di per sé non avrebbe ragione di esserci, stando alla logica della scienza. La scienza - così pare - può seguire soltanto le leggi sue proprie; e, in base a queste, nella scienza non hanno peso se non gli argomenti di ragione, oggettivi. Che decida una autorità, su ciò che si deve insegnare o non insegnare, invece di ricorrere ad argomenti e ad una conoscenza raggiungibile mediante argomenti, è considerato antiscientifico. E una cosa che discredita la teologia nell’organismo dell’Università.
Non l’autorità decide, ma gli argomenti, e se ciononostante l’autorità fa il tentativo di decidere e determinare, allora si è di fronte ad una usurpazione e ad una prepotenza contro le quali ci si deve difendere.
Spesso, oggi, anche la teologia cattolica pensa in questo modo; e ciò l’ha condotta in una situazione contraddittoria.
Nei suoi confronti vale ancora - e vale anzi a maggior ragione - ciò che Romano Guardini op­poneva ai suoi maestri di teologia al tempo della crisi modernista e poco dopo: che cioè il loro cattolicesimo era soltanto un «liberalismo col limite dell’obbedienza al dogma». In tal modo il loro pensiero zoppicava da entrambi i lati: come liberalismo non convinceva, per quel suo limite dell’obbedienza al dogma sopportata a fatica; ma neppure poteva rendere accetto il cattolicesimo, in cui vedeva solo vincoli e pastoie, e non qualcosa di proprio, di positivo, di vivente e di grande. Non si può rimanere a lungo in una posizione ambigua di questo genere.

Se, per la teologia, Chiesa e autorità ecclesiale sono qualcosa di estraneo alla scienza, alla scienza teologica, Chiesa e teologia sono entrambe in pericolo. Perché una Chiesa senza teologia immiserisce e diventa cieca; una teologia senza Chiesa si dissolve nell’arbitrario. Per questo motivo, la questione della loro intima connessione deve essere pensata di nuovo dalle fondamenta, e deve essere pienamente chiarita.

Non per delimitare sfere di interessi; non per mantenere o per rimuovere un potere, ma per il bene della teologia e in ultima analisi per il bene della nostra stessa fede.

Il tema è smisurato; in una lezione non è possibile trattarlo con completezza neppure approssimativa. Tenterò soltanto di esporre alcuni punti di vista, che dovranno servire da guida nella riflessione ulteriore. Non vorrei escludere di proposito la questione del magistero e, tuttavia, vorrei toccarla da principio solo marginalmente, perché si tratta di una questione che non può essere posta in maniera adeguata, se non è stato chiarito prima ciò che sta propriamente a fondamento: l’intimo essenziale nesso che lega l’una all’altra Chiesa e teologia. Ci sono molti modi per esporre questo nesso. Col crollo del modello liberale classico nel periodo tra le due guerre mondiali e, soprattutto poi, con la lotta tra Stato e Chiesa durante il terzo Reich, quel nesso è stato concepito in maniera nuova dai più significativi teologi dell’epoca, ciascuno dei quali lo ha presentato a suo modo.

Il primo, forse, ad aprire la strada fu l’allora libero docente Romano Guardini, per il quale erano divenute esperienze personali due fenomeni storici: il Dantismo aveva infranto la fede della sua infanzia; la conversione fu un superamento di Kant e il superamento di Kant un nuovo inizio del pensare, nell’obbedienza ad una parola che proviene da quel soggetto vivente e vincolante che è la Chiesa.

Dopo la prima guerra mondiale, fu il grande storico ed esegeta protestante Erich Peterson che, in polemica con Harnack e con Barth, segnalò nell’insufficienza della dialettica e della sua serietà solo apparente l’insufficienza del liberalismo stesso e giunse al dogma e infine alla Chiesa cattolica. A suo modo, anche Karl Barth, polemizzando ancora con Harnack, riconobbe che la teologia o è ecclesiale o non è; il fatto che la sua imponente opera si intitoli Kirchliche Dogmatik (Dogmatica ecclesiale), era e resta testimonianza di una confessione, senza la quale l’opera non esisterebbe. Infine, bisogna fare il nome di Heinrich Schlier, il quale, in polemica col nazionalsocialismo e contro una teologia accademica zoppicante, riscoprì il fatto che la teologia ha bisogno della Chiesa e delle sue decisioni dottrinali, proprio perché la teologia non esiste se non in vista di questo fine, «insegnare a conoscere la Parola di Dio in modo esplicito e ordinato». Anche questa presa di posizione era come le altre, e lo abbiamo già visto, gravida di conseguenze di importanza vitale; prima Schlier deve rassegnarsi a rinunciare al suo impiego a causa della persecuzione politica; in un secondo tempo, la via imboccata lo portò nella Chiesa cattolica. Sarebbe stimolante riflettere sul tema «ecclesialità della teologia» alla luce del pensiero di queste quattro grandi figure, di ciò che hanno in comune, come di ciò che le contrappone l’una all’altra.

Il nuovo soggetto come presupposto e fondamento di ogni teologia

Ma questo ci porterebbe troppo lontano. Vorrei invece provare a cominciare da un punto che a prima vista sembra senza connessione con il nostro tema, e in realtà fornisce invece, a mio parere, il fondamento che è necessario prendere in considerazione se si vuol capire qualcosa del nostro tema. Mi riferisco a quella espressione della lettera ai Galati nella quale Paolo descrive ciò che è peculiarmente cristiano al tempo stesso come sconvolgente esperienza personale e come oggettiva realtà: «non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2, 20). La frase si trova a conclusione della breve autobiografia spirituale che Paolo traccia per i suoi lettori, non al fine di trarne vanto, ma per render chiaro, col richiamo a quella che è stata la sua storia personale con Cristo e con la Chiesa, quale sia il messaggio che gli è stato affidato. Questa apologia del cammino che egli ha percorso lo induce a procedere, per così dire, dall’esterno verso l’interno: vengono prima indicati gli avvenimenti esteriori della sua chiamata e della sua storia, ma poi, a conclusione, in quell’unica frase, come in un lampo, diventa visibile l’avvenimento interiore, che era accaduto in quegli avvenimenti esteriori e che è a fondamento di tutto. Questo avvenimento interiore è, nello stesso tempo, totalmente personale e totalmente oggettivo. Un’esperienza del tutto individuale e nello stesso tempo dice qual è l’essenza del cristianesimo per tutti. Indeboliremmo troppo il senso di quella frase se la spiegassimo così: il diventare cristiano e l’essere cristiano poggiano su una conversione. Dicendo così, si punta già nella direzione giusta; ma la conversione in senso paolino è qualcosa di molto più radicale che non una semplice revisione di qualche nostra opinione o di qualche nostra posizione. E un processo in cui si muore. Detto in altre parole: è un cambiamento di soggetto. L’io smette di essere un soggetto autonomo che ha in se stesso la sua propria consistenza. Viene strappato a se stesso e inserito in un nuovo soggetto. Non che l’io scompaia semplicemente e definitivamente; deve lasciarsi cadere, perdere, per poter poi riceversi di nuovo in un io più grande e insieme con questo.
Questo pensiero fondamentale, che la conversione è l’abbandono della vecchia soggettività isolata e il ritrovarsi in un nuovo soggetto unitario, in cui i limiti dell’io sono saltati e diventa possibile così il contatto con il fondamento di ogni realtà; questo pensiero fondamentale ritorna ancora un’altra volta nella lettera ai Galati, in un altro con­testo, con accenti nuovi. Per sviluppare il tema se l’uomo possa, per dir così, costruirsi da se stesso o se non debba lasciarsi donare a se stesso, Paolo si serve della coppia di opposti «legge» e «promessa». Ed egli sottolinea con molta insistenza che la promessa è stata fatta al seme di Abramo, al singolare. Essa non vale per una molteplicità di soggetti l’uno accanto all’altro; vale «per il seme di Abramo» (Gal 3,16), al singolare. C’è un unico portatore della promessa e al di fuori di questa c’è il mondo confuso dell’autorealizzazione, un mondo nel quale gli uomini sono in concorrenza gli uni con gli altri e pretendono di mettersi in con­correnza con Dio; ma, in tutto questo loro darsi da fare, succede che sfugge loro proprio ciò in cui sta la loro vera speranza.
E tuttavia, come può la promessa essere una speranza se essa vale per uno solo? Ecco la risposta dell’Apostolo: «quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. E se appartenete a Cristo, allora siete seme di Abramo, eredi secondo la promessa» (Gal 3, 27-29). E importante notare che Paolo non dice: «voi siete una cosa sola», ma mette in evidenza: «voi siete uno (una persona sola)». Voi siete diventati un soggetto nuovo, un soggetto unico con Cristo e così, in virtù di questa fusione di soggetti, siete nello spazio della promessa.
Questo secondo testo è importante, in quanto esso rende chiaro il contenuto oggettivo che costituisce il fondamento anche della prima formula («io, e però non più io»); ma nel primo testo esso non è altrettanto percepibile dal lettore. È impossibile che ciascuno si prefigga di operare da sé il cambiamento di soggetto di cui qui si tratta. Sarebbe illogico e contraddittorio. In tal caso, infatti, chi sarebbe all’«opera» sarebbe in ogni caso lo stesso vecchio soggetto, chiuso nell’ambito non ol­trepassabile del proprio sé. Il cambiamento di soggetto include un elemento di passività che Paolo designa a ragione come morte, come partecipazione all’evento della croce. Può capitare soltanto dall’esterno, come proveniente da altro. Dato che la conversione cristiana infrange la barriera fra l’io e il non-io, può esser data soltanto da un non-io, non può mai compiersi nella mera interiorità della propria individuale decisione. Essa ha una struttura sacramentale. Il «vivo io, e non sono più io che vivo» non descrive un’esperienza mistica privata, ma definisce piuttosto l’essenza del battesimo. Si tratta di un evento sacramentale e perciò ecclesiale. Il passivo del diventare cristiano esige l’attivo della Chiesa che opera, della Chiesa in cui l’unità di soggetto dei credenti si manifesta nella concretezza delle persone fisiche e della storia. Solo da questo punto di vista l’espressione paolina della Chiesa come «corpo di Cristo» può essere adeguatamente compresa. Non c’è nessuna differenza tra questo e l’esser rivestiti di Cristo; laddove il nuovo abito, che allo stesso tempo ricopre e libera il cristiano, è la nuova corporeità, il corpo del Cristo risorto.
Chi legge Paolo in questa prospettiva finisce sempre, partendo dai più diversi aspetti, con l’incontrare la stessa intuizione fondamentale Nella teologia battesimale della lettera ai Romani la troviamo unita al tema della tradizione e cioè ai contenuti che sono l’oggetto del conoscere cristiano e della professione di fede. Il battesimo viene descritto qui come un essere trasferiti nell’ambito di una certa forma di insegnamento (τύποϛ διδαχῆϛ, forma doctrinae), e il soggetto corrispondente a questa sua consegna in un comune spazio di conoscenza mediante un’obbedienza che nasce dal cuore (Rm 6, 17). Sotto un aspetto ancora di-verso, ci imbattiamo nello stesso pensiero nella prima lettera ai Corinzi. Qui Paolo sviluppa il paragone del corpo e delle membra, che è usuale nell’antica riflessione filosofica sulla società. Nella sua applicazione alla Chiesa, abbiamo un cambiamento sorprendente che per lo più passa inosservato. E questo porta ad una interpretazione erronea dei fondamenti della ecclesiologia paolina, la quale non disdegna apporti dalla sociologia dell’epoca, ma è guidata però da una concezione di base che è del tutto diversa. Paolo non dice infatti: come in un organismo ci sono molte membra che collaborano, così è anche nella Chiesa. Si tratterebbe, in questo caso, di un modello di Chiesa puramente sociologico. E vero piuttosto questo: che, dopo aver ripreso ed esposto l’antica metafora, egli sposta il pensiero su un piano del tutto diverso. Dice infatti: come è del corpo e delle membra, così anche Cristo (1 Cor 12, 12). Il soggetto che ci è posto di fronte non è la Chiesa; anch’essa infatti, secondo Paolo, non è un soggetto separato e sussistente in se stes­so. Il nuovo soggetto è piuttosto «il Cristo» stesso e la Chiesa non è altro che lo spazio di questo nuovo soggetto unitario; essa è perciò molto più di una pura e semplice interazione sociale. Si tratta, in definitiva, dello stesso «singolare» cristologico della lettera ai Galati, che rimanda anche qui al sacramento; in questo caso all’Eucarestia, di cui Paolo, due capitoli prima, aveva definito l’essenza con un’espressione audace: «poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo» (10, 17). «Un corpo»; in base al concetto biblico di soma, potremmo tradurre benissimo «un soggetto», purché non si dimentichi la dimensione di fisicità e di storicità ditale soggetto.
Prima di porci la domanda, che cosa tutto questo abbia propriamente a che fare con la teologia, vorrei accennare, almeno di passaggio, al modo in cui questi temi si presentano nel vangelo di Giovanni. Infatti, se Paolo è mosso anzitutto dalla domanda sulla fede e sulla professione di fede, Giovanni pone con molta energia la questione della vera conoscenza.
Quel che interessa ad entrambi è, in definitiva, la verità del nostro essere. Giovanni si trova davanti a questo fatto: ogni discorso su Gesù che sia puramente empirico (si potrebbe dire: puramente storico) resta bloccato in un groviglio decisamente assurdo di fraintendimenti. La domanda chi sia Gesù viene ridotta perciò alla domanda da dove Egli venga in realtà. Siamo già di fronte al tipico fraintendimento storicistico che crede di aver compreso un fatto perché ha analizzato il processo che l’ha generato. Per Giovanni, questo è un errore grossolano. Ma se non si può raggiungere una vera conoscenza di Gesù mediante una chiarificazione della sua origine, mediante il ricorso agli accadimenti storici (alla Historie), come lo si può conoscere, allora? Giovanni dà una risposta che per il pensiero moderno suonerà certo, da principio, «mitologica». Egli dice: solo il Paraclito può farcelo cono­scere, solo lo Spirito che è lo Spirito del Padre e del Figlio stesso. Si può conoscere qualcuno solo mediante lui stesso. Se poi si fa più attenzione a quella risposta, subito ci si accorge che col rimando alla pneumatologia si viene introdotti nella ecclesiologia e che si tratta di un ben definito processo di comprensione. Infatti, come opera lo Spirito? In primo luogo, opera facendo il dono di ricordare: ed è un ricordare in cui il singolo si congiunge col tutto e questo conferisce al singolo, prima in­comprensibile, il suo vero significato. In secondo luogo, ciò che lo caratterizza è l’ascoltare; lo Spirito non parla da se stesso; ascolta ed insegna ad ascoltare; vale a dire, non aggiunge qualcosa d’altro alla Parola, ma introduce nella Parola la quale, nell’ascolto, si fa luce. Lo Spirito non falsa, ma fa sì che Colui che mi sta di fronte parli e penetri in me. In tutto ciò è già incluso anche questo: lo Spirito produce uno spazio dell’ascolto e della memoria, un «noi» che in Giovanni definisce la Chiesa come luogo della conoscenza. Soltanto in questo «noi» che è appartenenza all’origine, solo grazie all’appartenenza, avviene di comprendere. Bultmann lo ha espresso con perfetta chiarezza quando, a proposito della testimonianza dello Spirito in Giovanni, ha detto: «È ripetizione, memoria, nella luce della attuale comunione con Lui».

Conversione, credere e pensare

Sebbene tutto questo sia per ora abbastanza lontano dai nostri problemi che riguardano il concetto e i metodi della teologia, tuttavia, co­minciano ormai a delinearsi, a poco a poco, le connessioni. Incomin­ciamo con una apparente banalità. La teologia suppone la fede. Essa vive del paradosso di una unione di fede e di scienza. Chi vuole negare questo paradosso nega la teologia; e allora dovrebbe avere il coraggio di dirlo. Chi invece sostanzialmente lo accetta, accetta anche le tensioni che sono implicite in esso. In quel paradosso viene in luce la peculiarità del modo in cui il cristianesimo pretende di essere verità, ciò che il cristianesimo ha di proprio, quanto alla sua natura stessa, in tutta la storia delle religioni. Il fenomeno teologia, infatti, nello stretto significato del termine, è un fenomeno esclusivamente cristiano che non si ritrova altrove con le stesse caratteristiche. Viene presupposto che, nella fede, abbiamo a che fare con la verità; vale a dire, con una conoscenza che non si riferisce al funzionamento di qualcosa, ma alla verità del nostro essere stesso; in fondo, si tratta di questo: come è necessario che noi siamo per essere come dobbiamo essere. Si presuppone che questa verità sia accessibile solo nella fede; che la fede è un nuovo inizio del pensare, dì cui ci e fatto dono e che noi non possiamo procurarci o surrogare da soli. E viene presupposto anche, allo stesso tempo, che questa ve­rità illumina tutto il nostro essere che perciò si rivolge anche al nostro intelletto, che vuole esser compresa dal nostro intelletto. Viene presupposto che questa verità, in quanto verità, si indirizza alla ragione, che deve essere pensata dalla ragione perché l’uomo la faccia propria e perche essa sviluppi pienamente la sua forza. Mentre il mito, in Grecia come in India, vuol dispiegare molteplici immagini di una verità che re­sta sempre inattingibile, la fede in Cristo, nei suoi asserti fondamentali, non ammette scambi o sostituzioni. Certo, essa non annulla i limiti essenziali dell’uomo nei confronti della verità; vale a dire, non toglie di mezzo la legge dell’analogia; ma l’analogia è qualcosa di diverso dalla metafora. Essa ammette sempre un ampliamento e un approfondimento ma, nei limiti dell’umano, essa dice la verità. Perciò, la razionalità appartiene all’essenza stessa del cristianesimo e le appartiene in un modo che non trova riscontro nelle altre religioni, le quali non avanzano nessuna pretesa in tal senso. Chi volesse soffocarne lo svilup­po, si opporrebbe ad una dimensione irrinunciabile della fede. Sta qui il limite che il magistero della Chiesa deve osservare nei suoi rapporti con la teologia.
Ma a questo punto è necessario che noi sviluppiamo fino in fondo quel pensiero che si è venuto delineando a partire da Paolo e da Giovanni. Ormai possiamo dire: alla teologia appartiene il credere e alla teologia appartiene il pensare. La mancanza dell’uno o dell’altro ne provocherebbe la dissoluzione. Ciò significa: la teologia presuppone un nuovo inizio nel pensare che non è il prodotto di una riflessione nostra, ma nasce dall’incontro con una Parola che sempre ci precede. Chia­miamo questo nuovo inizio «conversione». Dato che non c’è teologia senza fede, non c’è teologia senza conversione. La conversione può avere molte forme. Non sempre essa deve verificarsi in un accadimento puntuale, come per Agostino o per Pascal o per Newman o per Guardini. Però, in qualche maniera, il «sì» a quel nuovo inizio deve essere consapevolmente assunto, la svolta dall’io al non più-io deve essere fatta. Diventa subito chiaro, allora, che una teologia creativa tanto più sarà possibile, quanto più la fede sarà divenuta veramente esperienza; quanto più la conversione, con un sofferto e doloroso processo di cambiamento, avrà conseguito evidenza interiore; quanto più essa sarà stata riconosciuta come la strada irrinunciabile per penetrare nella verità del proprio essere. È questo il motivo per cui i convertiti possono sempre essere guide nel cammino verso la fede; per questo essi possono essere di grandissimo aiuto nel riconoscere e nel testimoniare la ragione della speranza che è in noi (1 Pt 3, 15). Quello della connessione fra teologia e santità non è dunque un discorso sentimentale o pietistico, ma ha il suo fondamento nella logica delle cose, e ha dalla sua parte la testimonianza di tutta la storia. Non è pensabile Atanasio senza la nuova esperienza di Cristo di Antonio abate; Agostino senza la passione del suo cammino verso la radicalità cristiana; Bonaventura e la teologia francescana del XIII secolo senza la nuova gigantesca attualizzazione di Cristo nella figura di san Francesco d’Assisi; Tommaso d’Aquino senza la passione di Domenico per il Vangelo e l’evangelizzazione; e si potrebbe continuare, così, lungo tutta la storia della teologia. La pura e semplice razionalità non basta ancora per produrre una grande teologia cristiana: in fondo, anche figure così eminenti come quelle di Ritschl, Jülicher, Harnack, lette a distanza di generazioni, restano singolarmen­te povere dal punto di vista teologico. È ovvio che, viceversa, una pietà chiusa timorosamente in se stessa non può trovare una espressione in cui la fede riceva una evidenza nuova; e neanche può, oltrepassando i suoi limiti, farsi annuncio per gli uomini in cerca di verità.

Il carattere ecclesiale della conversione e le sue conseguenze per la teologia

Con queste riflessioni si è già fatto un passo ulteriore. La fede, si diceva, richiede conversione. Ma la conversione è un atto di obbedienza nei confronti di ciò che mi precede e che non ha la sua origne in me stesso. E questa obbedienza resta, perché quel qualcosa che mi prece­de, una volta conosciuto, non diventa una porzione del pensiero mio; accade invece l’opposto: sono io che divento suo, essa resta sempre al di sopra di me. Per il cristiano, poi, questo qualcosa che precede non è un «esso», una cosa, ma un «Egli», una persona; anzi, meglio, un «Tu». il Cristo, il Verbo fatto carne; è Lui il nuovo inizio, a partire dal quale noi pensiamo. E Lui il nuovo soggetto, in cui è saltato il limite della sog­gettività, sono saltate le barriere tra soggetto e oggetto, tanto che posso dire: io, e però non più io.
A partire di qui, si aprono diverse prospettive, in varie direzioni. Tento soltanto di farne un breve cenno. Innanzitutto, è evidente il carattere comunionale di questo processo. La conversione non porta ad un rapporto privato con Gesù che rimarrebbe, pur sempre, in fondo, soltanto un dialogo con se stessi. Essa è un essere consegnato ad una certa forma di insegnamento, come Paolo dice; è ingresso nel «noi» della Chiesa, come abbiamo visto in Giovanni. Solo in questo modo è concreta l’obbedienza dovuta alla verità. In particolare Guardini è tornato più e più volte a dare espressione a questo nucleo della sua esperienza di conversione, che costituisce il centro della sua teologia e un nuovo inizio della teologia dopo il fallimento del modello liberale. La formula della sua conversione, quella che segnò la svolta della sua vita, era stata Mt 10, 39: «Chi vuole trovare la sua vita (chi vuole realizzarsi da sé), la perderà; e chi perde la sua vita per causa mia, la troverà». Dopo tutti gli smacchi dell’autorealizzazione, queste parole gli si erano impresse a fuoco nell’anima, con un’evidenza umana indubitabile. Ci si deve perdere per giungere a se stessi. Ma perdersi dove? Certo non in un posto qualsiasi. Un perdersi del genere può avere solo un destinata­rio adeguato: Dio. E dove è Dio? L’esperienza di Guardini afferma: «Non c’è un libero accesso a Dio. Di fronte alla pretesa di una ricerca di Dio autonoma... Egli è lo sconosciuto, che abita in una luce inacces­sibile (l Tm 6, 16)». Solo il Dio concreto può essere qualcosa di diverso da una nuova proiezione del proprio io. Solo la sequela di Cristo è il cammino del perdersi che conduce alla mera. Ma, anche a questo pun­to, sorge un nuovo interrogativo: quale immagine di Gesù è più di una mera immagine? Dove posso trovarlo veramente, dove posso trovare Lui e non soltanto pensieri su di Lui? Guardini accenna alle moltepli­ci immagini di Cristo e afferma: «Un esame accurato è in grado di cogliere un’inquietante somiglianza tra le diverse immagini di Cristo e coloro che le hanno proposte. Spesso sembra che queste figure di Cristo non siano nient’altro se non gli autoritratti idealizzati di chi le ha esco-girate». E la risposta, allora? Colui che si è fatto carne è restato carne. Egli è concreto. «Nella Chiesa di Cristo viene continuamente rivolta ai singoli la richiesta di dare la propria anima, per poterla ricevere ancora, rinnovata e più vera». L’obbedienza alla Chiesa è la concretezza della nostra obbedienza. La Chiesa è il nuovo, grande soggetto, nel quale si toccano passato e presente, soggetto e oggetto. E la nostra contemporaneità con Cristo; non ce n’è altra.
La voce «incarnazione» apre ancora altre prospettive; Heinrich Schlier le ha approfondite e sviluppate nel resoconto della sua conversione. Posso solo accennarle qui; prima di tutto c’è il nesso fra tradizione e trasmissione vivente. Questo nesso implica l’autorità apostolica che interpreta la parola della tradizione e le conferisce la sua chiarezza.
L’ultimo fondamento di tutto ciò consiste nel fatto della piena e definitiva decisione di Dio per noi espressa e concretizzata nel Figlio che è la Parola, la Verità. A partire di qui, c’è «secondo il Nuovo Testamento... il fatto che la fede si fissa in proposizioni concrete e che esse esigono dalla fede un concreto riconoscimento della loro verità». Stando così le cose, Schlier poteva dire di essere diventato cattolico per una via strettamente protestante, cioè la sola scriptura. Chi ha avuto in dono di essere suo amico sa che egli non aveva perduto niente della grandezza dell’eredità protestante; soltanto, l’aveva portata alle sue ultime conseguenze.
Interrompo a questo punto la serie delle mie riflessioni, perché ciò che è decisivo ormai è diventato chiaro: per la scienza teologica, la Chiesa non e un istanza estranea, essa è piuttosto il fondamento della sua esistenza, la condizione della sua possibilità. E la Chiesa non è, a sua volta, un principio astratto; essa è invece soggetto vivente, è contenuto concreto. Per sua natura questo soggetto è più ampio di ogni singola persona; anzi, di ogni singola generazione. La fede implica sempre appartenenza ad un tutto e, proprio per questo, un uscire dal chiuso di sé. Ma la Chiesa non è neppure uno spazio spirituale non tangibile in cui ciascuno ha da scegliere quel che più gli aggrada. Essa è concreta, nella parola vincolante della fede. Ed è voce vivente che dice le parole della fede.

Fede, annuncio e teologia

Non è necessario sviluppare qui, nei particolari, la conseguente teoria del magistero e delle sue forme; se ne è parlato abbastanza spesso. Dobbiamo però affrontare alcune questioni concrete che in questo contesto vengono continuamente riproposte. E sul piano del concreto, infatti, che sorgono i problemi. Non offre molta difficoltà il riconoscere, sul piano della teoria, che la teologia è ecclesiale per natura sua; che la Chiesa non è soltanto una cornice organizzativa ma il suo intimo fon­damento e la sua fonte immediata; che dunque la Chiesa non può essere incompetente sui contenuti e teologicamente muta, ma deve avere una voce vivente: deve avere la facoltà di parlare in modo tale da essere vincolante anche per i teologi. A questo punto, si apre, nel ricorso a quella «concretezza», una nuova possibilità di fuga, oggi sempre più sfruttata. Alla Chiesa, si dice, è stato affidato il ministero pastorale; ad essa spetta di portare l’annuncio ai credenti, non di insegnare ai teologi. Ma una separazione del genere tra annuncio e dottrina è in opposizione profonda con l’essenza della parola biblica. Una tale separazione non fa altro che riprendere quella divisione tra psichici e gnostici, con la qua­le la cosiddetta gnosi antica ha tentato di crearsi un suo libero spazio, e che di fatto l’ha condotta fuori della Chiesa e fuori della fede. Quella separazione presuppone, infatti, il rapporto che c’è nel paganesimo tra mito e filosofia, simbolismo religioso e ragione illuminata; contro quella separazione era scesa in campo la critica della religione operata dal cristianesimo; come tale, essa è anche critica di un pensiero religio­so classista. Ha effettuato l’emancipazione dei semplici, ha rivendicato anche per loro la facoltà di essere, nel vero senso della parola, filosofi; vale a dire, di comprendere ciò che è proprio e peculiare dell’uomo altrettanto bene quanto lo comprendono i dotti; anzi, meglio dei dotti. Le parole di Gesù sulla stoltezza dei sapienti e sulla sapienza dei piccoli (cfr. in particolare Mt 11, 25 e paralleli) hanno proprio questo scopo: fondare il cristianesimo come religione popolare, come una religione in cui non vige un sistema a due classi.
E in effetti: l’annuncio della predicazione insegna in maniera vincolante; questa è la sua natura. Non è un modo di occupare il tempo libero, o un intrattenimento religioso. La predicazione intende dire al­l’uomo chi egli è e che cosa deve fare per essere se stesso. Essa intende manifestargli qual è la verità di se stesso e ciò per cui egli può vivere e morire. Non si muore per un mito che può essere sostituito con un al­tro mito; se un mito, per qualsiasi ragione, causa difficoltà, lo si può rimpiazzare, si può sceglierne un altro. E neppure di ipotesi si può vivere; perché la vita non è un’ipotesi; è una realtà irripetibile, a cui è le­gato un destino eterno. Ma come potrebbe la Chiesa insegnare in ma­niera vincolante, se poi questo insegnamento dovesse essere non vin­colante per i teologi? L’essenza del magistero sta proprio in questo, che l’annuncio della fede è il criterio valido anche per la teologia; anzi, l’oggetto della riflessione teologica non è altro che questo stesso annuncio. La fede dei semplici, perciò, non è una teologia ridotta ad uso della massa dei profani, non è una sorta di «platonismo per il popolo». Le cose stanno piuttosto all’inverso: l’annuncio è il metro della teologia, non la teologia il metro dell’annuncio. Questo primato della fede dei semplici corrisponde perfettamente, del resto, ad un fondamentale ordinamento antropologico; le cose veramente importanti per l’uomo vengono comprese con una percezione semplice, in linea di principio accessibile a chiunque, mai totalmente eguagliabile dalla riflessione. Si potrebbe dire, con una espressione un po’ alla buona, che il Creatore si è comportato in maniera molto democratica. Certo, non a tutti gli uomini è dato di coltivare la scienza teologica; però, l’accesso alle grandi, fondamentali conoscenze è aperto a tutti. In questo senso, il magistero ha un carattere democratico; difende infatti la fede comune, in cui non c’è alcuna differenza di rango tra dotti e semplici. Giusto dire che la Chiesa, nel suo ministero pastorale, è abilitata all’annuncio non all’insegnamento teologico-scientifico. Però, proprio l’ufficio della predicazione è ufficio magisteriale anche nei confronti della teologia.
Così, la questione cui si accennava ha già avuto risposta, in parte. Si diceva: non è difficile accettare il magistero, in teoria; però, appena si passa sul terreno pratico, sorge un grave timore; in tal modo non sì rischia di restringere indebitamente la libertà di movimento del pensiero? Non ne deriva un controllo minuzioso e meschino, tale da mortificare il pensiero? Non c’è forse da temere che la Chiesa travalichi l’ambito dell’annuncio e si immischi abusivamente nel lavoro propriamente scientifico? Sono domande da prendersi sul serio. Perciò, è giusto ricercare una sistemazione dei rapporti fra teologia e magistero che assicuri alla responsabilità propria della teologia lo spazio che le è dovuto. Ma, per quanto questo sia giusto, è necessario avere presenti anche i limiti di quelle domande. Si costruisce in modo sbagliato, in teologia, quando nel magistero della Chiesa si vede solo una palla al piede. È ciò che scoprì Guardini nell’incontro con i suoi maestri, personalmente ortodossi ma scientificamente emuli del liberalismo, ed è ciò che lo condusse ad un inizio radicalmente nuovo: se la teologia considera un ostacolo quello che le è più proprio, come è possibile che porti frutto? Bi­sogna guardare alla Chiesa e al dogma come ad una forza generatrice, non come a un vincolo oneroso nelle deduzioni teologiche. E, di fatto, è solo questa «forza generatrice» che apre alla teologia le sue grandi prospettive. Lo si può vedere considerando il caso dell’esegesi; è ancora oggi esempio classico della tesi secondo cui la Chiesa, per i teologi, è solo di ostacolo. Ma che cosa diventa una esegesi che si emancipa dalla Chiesa? Nient’altro che antiquariato. Non fa altro che indagare sul passato e presentare ipotesi mutevoli sull’origine dei singoli testi e sul loro rapporto con la realtà storica. Quelle ipotesi ci interessano più di quanto non ci interessino altre teorie letterarie soltanto perché c’è la Chiesa, e la Chiesa afferma che quei libri non danno soltanto informazioni intorno a ciò che è stato, che è passato, ma parlano di ciò che è vero. La situazione non migliora se si cerca di attualizzare la Bibbia con filosofie private, perché ci sono filosofi migliori, che pure ci lasciano freddi. Ma quanto interessante diventa la Bibbia se si ha il coraggio di leggerla come una totalità e una unità! Se essa ha la sua origine in quell’unico soggetto che è il popolo di Dio e, attraverso questo, da quel soggetto che è Dio stesso, allora essa parla del presente. E allora diventano piene di senso anche le conoscenze relative al vario processo della sua formazione; allora si deve scoprire l’unità in questa diversità; la diversità diventa ricchezza dell’unità.
C’è un largo spazio per le ipotesi, per la pratica della conoscenza storica; con quest’unico limite, che non si distrugga con ciò l’unità del tutto, un’unità che sta su un piano diverso da quella del materiale dei diversi testi.
Sta su un altro piano e appartiene tuttavia alla realtà letteraria della Bibbia stessa.
Vorrei accennare brevemente ad un altro esempio soltanto. Quando la critica del Nuovo Testamento cominciò a svelarci l’esistenza di diver­si strati nelle testimonianze relative a Gesù Cristo, si aprirono prospettive grazie alle quali era possibile vedere Gesù in nuova luce e apprendere su di Lui cose prima impensabili. Però, se si comincia a separare tra loro i diversi strati e ad identificare la verità con l’età cronologica, del resto ipotetica, di quelle testimonianze, l’immagine di Cristo si impoveri­sce sempre di più; alla fine, non resta altro che un paio di ipotesi. Come sarebbe entusiasmante e bello andare alla ricerca non del Gesù di questa o di quella fonte presunta, ma del Gesù del Nuovo Testamento stesso. E qui ci imbattiamo in qualcosa di inaspettato: il frazionamento della Bibbia ha portato ad un nuovo genere di allegoresi. Non si legge più il testo, ma le presunte esperienze di presunte comunità; si crea così una interpretazione allegorica spesso molto avventurosa e che, alla fine, non fa altro che convalidare le proprie idee. Per molto tempo si ebbe l’impressione che il magistero, vale a dire l’annuncio della fede da parte della Chiesa, costringesse ad una sovrapposizione della dogmatica al testo biblico ostacolando una serena interpretazione storica. Oggi è chiaro che la serietà storica del testo trova la sua difesa soltanto in un ancoramento alla fede della Chiesa; e che solo così è possibile una attenzione al testo che non è però fondamentalismo. Infatti, senza un soggetto vivente, la lettera o viene assolutizzata, oppure sfuma nell’indeterminato.
Resta dunque confermato ancora una volta ciò che abbiamo visto prima, riflettendo sul nesso di conversione, fede e teologia: la dissoluzione dei legami della teologia con la Chiesa non ha mai dato luo­go a rifondazioni della teologia stessa capaci di portar frutto; questo si è verificato, invece, quando essa si è rivolta alla Chiesa con rinnovata fiducia.
L’allontanamento dalla Chiesa ha sempre impoverito e appiattito il pensiero teologico. Il grande risveglio teologico tra le due guerre mondiali, che ha reso possibile il Concilio Vaticano Il, dà una nuova convincente testimonianza, nel nostro secolo, di tale legame. Tutto questo non deve sfociare in una specie di apoteosi del magistero.
Il pericolo di un controllo pusillanime e meschino non è parto di fantasia; lo dimostra la storia della disputa sul modernismo, anche se i giudizi sommari oggi diffusi sono unilaterali e non sono all’altezza della serietà della questione. Una abdicazione del magistero e una rinuncia alla disciplina in campo dottrinale non sarebbe una risposta a questi problemi, come non lo sarebbe la negazione del fatto che i problemi esistono.
Permettete che ricordi ancora una volta, nel presente contesto, Heinrich Schlier; i suoi discorsi teologici degli anni 1935 e 1936 stanno a rappresentare anzitutto la lotta dei cristiani evangelici per preservare l’identità cristiana contro l’attacco delle forze totalitarie, ma fanno risaltare anche il coraggio del teologo che convince di menzogna la pseudoteologia e ricaccia al suo posto il falso coraggio dell’estraniamento ereticale della fede. Di fronte ad una situazione in cui gli organi ufficiali della Chiesa per lo più tacevano ancora e, nella loro pusillanimità,. lasciavano via libera all’abuso di tutto ciò che era cristiano, egli si rivolse direttamente agli studenti di teologia e disse loro: «… fermatevi un attimo a riflettere: è meglio che la Chiesa, seguendo una retta procedura e dopo matura riflessione, tolga l’insegnamento ad un teologo che sostiene dottrine false, o è meglio che sia il singolo a dichiarare, con procedimenti arbitrari, che l’uno e l’altro studioso è un falso maestro e che bisogna stare in guardia contro di lui? Se si ammette che ciascuno possa giudicare a proprio piacimento, non è pensabile che chi è oggetto di giudizi privati di questo genere possa recedere. A questo punto sareb­be coerente soltanto la concezione liberale, secondo cui non c’è in generale alcuna decisione intorno alla verità di una dottrina e perciò ogni dottrina è in parte vera e ogni dottrina deve essere tollerata nella Chiesa. Ma noi non condividiamo questo modo di vedere. Esso nega che Dio, tra di noi, di fatto ha deciso».
Giudicando oggi, è facile affermare che allora si trattava in realtà di questo, se la Chiesa avrebbe continuato ad annunciare il Vangelo, o se sarebbe diventata strumento dell’anticristo. È facile dire oggi che anche l’atteggiamento apparentemente «liberale» in realtà serviva alla causa dell’anticristo; nel momento storico in cui l’uomo è costretto a scegliere ci sono sempre mille pro e mille contro. Non esiste una dimostrazione geometrica che renda superflua la decisione. L’evidenza della fede non è l’evidenza della geometria; è sempre possibile scansarla dialetticamente. Proprio per questo esiste il ministero apostolico che, dopo un esame accurato, traduce nella forma della decisione l’evidenza propria della fede. E importante, senza alcun dubbio, che si trovino regole giu­ridiche atte a salvaguardare l’opportuna autonomia del pensiero scientifico nel suo campo e ad assicurare lo spazio necessario alla disputa scientifica. Però, la libertà dei singoli docenti non è l’unico bene che il diritto abbia da salvaguardare in questa questione e neppure il bene più alto. Quanto al problema della gerarchia dei beni nella comunità cri­stiana, ci sono parole del Signore inesorabili che la Chiesa non può fare a meno di prendere in tutta la loro serietà: «chi scandalizza uno di que­sti piccoli che credono, è meglio per lui che gli si metta una macina di mulino al collo e venga gettato nel mare» (Mc 9, 42). I «piccoli» di questo versetto non sono i bambini; con questo termine vengono indicati, nel linguaggio di Gesù, i suoi discepoli, i futuri cristiani. E lo «scandalo» che li seduce non è una seduzione sessuale, ma l’inciampo che li porta alla perdita della fede. «Dare scandalo» vuol dire, secondo i risultati della attuale esegesi, «turbare la fede» e, perciò, «privare della salute eterna». Il bene primario di cui la Chiesa è responsabile è la fede dei semplici. L’attenzione per la fede dei semplici deve essere anche l’intimo criterio di ogni dottrina teologica. Di questo deve essere consapevole chi non fa ricerche puramente private, ma insegna in nome della Chiesa. Assumersi un incarico del genere e parlare non in nome di quel soggetto comune che è la Chiesa, implica l’assunzione di doveri per i quali il singolo si impone dei limiti. Infatti, gli viene così conferita un’autorità che come docente privato e senza la fiducia degli uomini nella parola della Chiesa, egli non avrebbe. Con l’autorità, gli viene dato un potere che è responsabilità, perché non si tratta di un potere che abbia in lui la sua origine; esso ha il suo fondamento nel mandato, nella Chiesa, in nome della quale gli è dato di parlare. Coloro che parlano di abuso di potere riferendosi al modo in cui nella Chiesa viene disciplinato l’insegnamento, oggi pensano di solito soltanto all’abuso di potere da parte di chi nella Chiesa ha questo compito. Si dimentica invece, per lo più, che c’è anche un abuso del potere conferito mediante il mandato di insegnare; è l’abuso di chi approfitta, per una parola che è puramente privata, della disponibilità all’ascolto e della fiducia che vengono prestate, ancor oggi, alla parola della Chiesa. L’autorità della Chiesa diventa complice di questo abuso di potere, se tollera che esso venga tranquillamente compiuto e impegna perciò la sua autorità là dove questa non le è concessa. Per lei la preoccupazione per la fede dei piccoli deve essere più importante del timore dell’opposizione dei potenti.
Vorrei terminare qui, perché i problemi particolari, come quelli relativi al modo migliore di salvaguardare nella pratica le varie finalità e i vari valori, porterebbero a trattare di difficoltà tecniche, che qui non possono essere discusse. Se però tutti si fanno guidare dalla coscienza e nel loro agire si basano sull’atto fondamentale della conversione al Signore, non ci possono essere difficoltà insolubili, anche se non mancheranno mai del tutto i conflitti. Tanto meglio si metteranno le cose, tra teologia e Chiesa, quanto più le parti penseranno e agiranno a partire dal loro legame col Signore; quanto più ciascuno potrà dire come Paolo: io, e però non più io.

Tentazione e grandezza della teologia

Permettete che concluda riportando una mia piccola esperienza, in cui questi problemi mi si sono resi direttamente percepibili. In occasione di una conferenza che dovevo tenere nell’Italia meridionale, mi è stato possibile visitare nello scorso autunno la magnifica cattedrale romanica della cittadina pugliese di Troia. Di essa, mi ha interessato soprattutto un bassorilievo del pulpito, datato 1158 e alquanto enigmatico. Già molto tempo prima un amico aveva risvegliato la mia curiosità per quel bassorilievo perché, secondo la sua interpretazione, esso contiene una raffigurazione allegorica della teologia che è una vera e propria laus theologiae, una esaltazione della teologia nella Chiesa e per la Chiesa. Il bassorilievo rappresenta tre animali, ed è chiaro che nelle loro posizioni reciproche l’artista ha inteso rappresentare la situazione della Chiesa del suo tempo. In basso si vede un agnello e sull’agnello si getta, pieno di brama e di ferocia, un leone. Lo ha già afferrato con le sue zampe possenti e con i denti. E corpo del povero agnello è già straziato. Si possono vedere le ossa e si vede anche che qua e là la carne è già stata fatta a pezzi e divorata. Soltanto lo sguardo infinitamente tri­ste della bestia dice, a chi osserva la scena, che l’agnello, già mezzo sbranato, tuttavia vive ancora. Di contro alla sua impotenza, il leone è espressione di potenza brutale, alla quale l’agnello non può opporre nient’altro che la sua angoscia, del tutto priva di risorse. E chiaro che l’agnello è la Chiesa, o meglio, la fede della Chiesa e nella Chiesa. In questa scultura, abbiamo dunque a che fare con una specie di «rapporto sulla situazione della fede» che sembra essere estremamente pessimistico: la vera Chiesa, la Chiesa della fede, sembra già mezza divorata dal leone del potere, nei cui artigli essa si trova. Non può far altro, ormai, che subire il suo destino in una inerme desolazione. La scultura, però, pur raffigurando con realismo non dissimulato la situazione della Chiesa come priva di ogni via d’uscita umana, è anche espressione della speranza che sa che la fede non può essere vinta. E singolare il modo in cui questa speranza viene rappresentata: si getta sul leone un terzo animale, un piccolo cane bianco. Quanto a forze esso appare sproporzionatamente inferiore al leone e, tuttavia, si butta sulla fiera immane facendo uso dei denti e degli unghioni. Forse finirà vittima del leone, ma il suo attacco costringerà la bestia a lasciare l’agnello.
Se il significato dell’agnello è abbastanza chiaro, resta l’interrogativo: chi è il leone? chi è il piccolo cane bianco? Non mi è stato ancora possibile consultare al proposito nessuna opera di storia dell’arte; non so neppure da quali fonti l’amico che ho ricordato prima abbia tratto la sua interpretazione dell’immagine; sono perciò costretto a lasciare aperta la questione riguardante la correttezza dell’interpretazione storica. Dato che l’opera appartiene al periodo del dominio svevo, si potrebbe presumere che vi sia rappresentata la lotta tra il potere imperiale e la Chiesa. Probabilmente, però, è meglio interpretarla in base al linguaggio simbolico classico dell’iconografia cristiana.
Il leone allora può rap­presentare il demonio o, più concretamente, l’eresia che strappa alla Chiesa la sua carne, la strazia e la divora.
Il cane bianco è simbolo della fedeltà; è il cane da pastore, che sta al posto del pastore stesso: «il buon pastore offre la vita per le pecore» (Gv 10, 11). Resta la domanda: qual è il posto della teologia in questo drammatico scontro? Secondo il parere del mio amico, simbolo della sacra dottrina è il piccolo cane coraggioso, che salva la fede dall’assalto del leone. Ma, più ci penso, più mi sembra che la scultura, se pure la si può interpretare su questa linea, lascia aperta la questione. Essa non è soltanto esaltazione della teologia, ma ammonizione, invito ad un esame di coscienza, que­stione aperta. Soltanto il significato dell’agnello è chiaramente definito. Le altre due bestie, il leone e il cane, non stanno ad indicare per caso le due possibilità della teologia, le due vie opposte che essa può imboccare? Il leone non simboleggia forse la tentazione storica della teologia, di rendersi padrona della fede? Non simboleggia per caso quella violentia rationis, quella ragione dispotica e violenta che un secolo più tardi Bonaventura avrebbe denunciato come forma spuria del pensiero teologico? Il cane coraggioso, allora, è la via opposta, una teologia che sa di essere a servizio della fede e che accetta di rendersi ridicola, ricacciando al suo posto la pura ragione, intemperante e dispotica. Se questa è l’interpretazione corretta, quale monito viene dal bassorilievo del pulpito di Troia a chi annuncia il Vangelo e a chi fa teologia, in tutti i tempi! A chi parla e a chi ascolta, essa è come uno specchio in cui esaminarsi; invita ad un esame di coscienza pastori e teologi. Gli uni e gli altri, infatti, possono essere belva o pastore. E così, indicando una problematica che resta sempre attuale, l’immagine ci riguarda tutti.

[Fonte: Ufficio Stampa della diocesi di Brescia]

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