venerdì 7 agosto 2009

Il libro di Giona e la sua prosecuzione neotestamentaria è la più decisa negazione del relativismo e dell’indifferenza che si possa immaginare


Il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede sulla predicazione del profeta Giona nella città di Ninive

Dio si impietosì

Il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede sulla predicazione del profeta Giona nella città di Ninive

del cardinale Joseph Ratzinger

Meditare la Parola

Il libro di Giona non narra avvenimenti che si sono avverati in un lontano passato; è una parabola.
Nello specchio di questo racconto parabolico appare il futuro e nello stesso tempo viene sempre di nuovo spiegato alle diverse generazioni il presente, che solo nella luce del futuro – in ultima analisi in quella luce che proviene da Dio – può essere capito e rettamente vissuto.
Perciò questa parabola è profezia: essa getta la luce di Dio sul tempo e con ciò ci chiarisce la direzione in cui dobbiamo muoverci perché il presente si apra sul futuro e non vada in rovina. In questa parabola profetica si possono distinguere tre cerchi.
Il testo annuncia a Israele incredulo la salvezza per i pagani, anzi, che i pagani precederanno Israele nella fede. L’ingresso dei pagani nella fede nell’unico Dio, che si è rivelato a Israele sul Sinai e oltre, risulta chiaramente in due passi del piccolo libro.
I marinai (cfr. Gn 1,4-16), che normalmente venivano considerati come crudeli e lontani da Dio, si convertono quando assistono al placarsi della tempesta.
Riconoscono che la descrizione che Giona ha dato del suo Dio è vera: è il Dio del cielo, che ha fatto il mare e la terra. Riconoscono questo Dio del cielo come l’unico vero Dio che tiene in mano l’universo. E sanno che il riconoscimento deve diventare un atto: già sulla nave fanno un sacrificio e promettono nuove azioni di grazie non appena saranno giunti a destinazione. Importante è che Gerusalemme non appare più come l’unico luogo in cui si può sacrificare a Dio – il suo tempio è ovunque. Ancora un altro elemento è importante in questo racconto: i marinai si erano mostrati pieni di compassione e rispetto di fronte alla vita umana e solo su insistenza di Giona avevano osato gettarlo in mare, nello stesso tempo però implorando perdono per questo sacrilegio. In questa loro umanità si può vedere, per così dire, una disposizione alla grazia, che rendeva loro possibile l’accesso alla fede.
La seconda profezia (cfr. Gn 3,1-10) davvero centrale per la salvezza dei pagani si trova nella storia di Ninive. Gli assiri, la cui capitale era Ninive, erano il popolo guerriero più brutale dell’antico Oriente; Ninive è indicata nel capitolo terzo di Naum come città sanguinaria. Ci viene data così un’idea della sua "malizia" la cui fama è "salita fino" a Dio (Gn1,2). La città è simbolo per eccellenza dell’infamia del peccato umano, quello che si accumula negli agglomerati delle grandi città. Essa è "paganesimo" nella sua forma più compatta. L’incredibile accade: la città crede al profeta e crede che c’è un Dio, il Dio per eccellenza, e non solo i suoi dei. Crede che c’è un giudizio e fa penitenza. La contrapposizione all’Israele sicuro di sé si fa qui estremamente chiara. Il capitolo 36 di Geremia ci racconta come Geremia abbia fatto leggere al re Ioiakìm il rotolo con l’annuncio delle punizioni.
Il re resta seduto sul trono e taglia pezzo per pezzo il rotolo, che alla fine diventa per intero preda delle fiamme. Il re della malvagia città di Ninive invece si alza dal trono, si spoglia di tutte le insegne regali e si mette a sedere come penitente sulla cenere. Il suo potere regale egli lo usa ora soltanto per imporre a tutti – uomini e animali – un digiuno completo, per richiamare alla penitenza, allo scendere dai loro seggi nella cenere. Chi è sceso è colui che sale a Dio: Dio si impietosisce e salva. La salvezza dei pagani è la salvezza di quelli che accettano la discesa di Dio e scendono da se stessi. La salvezza è fondata sulla penitenza. Chi è pieno di sé si preclude la salvezza.
Vediamo trasparire qui l’intero Vangelo di Cristo. Nel libro di Giona si compenetrano Antico e Nuovo Testamento e si mostrano come una sola cosa.

2) Il libro di Giona ci annuncia l’avvenimento di Gesù Cristo – Giona è una prefigurazione della venuta di Gesù. Il Signore stesso ci dice questo nel Vangelo del tutto chiaramente.
Richiesto dai giudei di dar loro un segno che lo riveli apertamente come il Messia, risponde, secondo Matteo: "Nessun segno sarà dato a questa generazione se non il segno di Giona profeta. Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra" (Mt12,39s).
La versione di Luca delle parole di Gesù è più semplice: "Questa generazione [...] cerca un segno ma non le sarà dato nessun segno fuorché il segno di Giona. Poiché come Giona fu un segno per quelli di Ninive, così anche il Figlio dell’uomo lo sarà per questa generazione" (Lc 11,29s). Vediamo due elementi in entrambi i testi: lo stesso Figlio dell’uomo, Cristo, l’inviato di Dio, è il segno. Il mistero pasquale indica Gesù come il Figlio dell’uomo, egli è il segno in e attraverso il mistero pasquale.
Nel racconto veterotestamentario proprio questo mistero di Gesù traspare del tutto chiaramente.
Nel primo capitolo del libro di Giona si parla di una triplice discesa del profeta: egli scende al porto di Giaffa; scende nella nave; e nella nave egli si mette nel luogo più riposto. Nel suo caso, però, questa triplice discesa è una tentata fuga davanti a Dio. Gesù è colui che scende per amore, non per fuggire, ma per giungere nella Ninive del mondo: scende dalla sua divinità nella povertà della carne, dell’essere creatura con tutte le sue miserie e sofferenze; scende nella semplicità del figlio del carpentiere, e scende nella notte della croce, infine persino nella notte dello Sheòl, il mondo dei morti. Così facendo egli ci precede sulla strada della discesa, lontano dalla nostra falsa gloria da re; la via della penitenza, che è via verso la nostra stessa verità: via della conversione, via che ci allontana dall’orgoglio di Adamo, dal volere essere Dio, verso l’umiltà di Gesù che è Dio e per noi si spoglia della sua gloria (Fil 2,1-10). Come Giona, Gesú dorme nella barca mentre la tempesta infuria. In un certo senso nell’esperienza della croce egli si lascia gettare in mare e così placa la tempesta. I rabbini hanno interpretato la parola di Giona "Gettatemi in mare" come offerta di sé del profeta che voleva con questo salvare Israele: egli aveva timore davanti alla conversione dei pagani e al rifiuto della fede da parte di Israele, e per questo – così dicono – voleva farsi gettare in mare. Il profeta salva in quanto egli si mette al posto degli altri. Il sacrificio salva. Questa esegesi rabbinica è diventata verità in Gesù.

3) Giona rappresenta Gesù ma rappresenta anche Israele nella sua resistenza alla misericordia universale di Dio. Il nome di Giona significa colomba.
In Osea 7,11, Efraim è indicato come colomba "ingenua, priva di intelligenza". Giona, in cui da una parte traspare il mistero di Gesù, è, dall'altra, una incarnazione dell’Israele testardo che ha timore della salvezza dei pagani e fa resistenza di fronte a questa salvezza, che insiste sulla unicità della sua predilezione che non vorrebbe dividere con nessuno.
Mentre Elia era turbato dal suo insuccesso e per questo voleva fuggire da Dio e morire, Giona ha paura del successo: fin dall’inizio egli teme che alla fine non sarà emesso il giudizio. Egli conosce Dio e sa che alla fine in lui la grazia prevale sempre sul giudizio. Egli però augura ai malvagi abitanti di Ninive il giudizio e non la grazia. Si augura che la sua predicazione si manifesti come vera attraverso il giudizio e non che la misericordia di Dio, per così dire, possa farla apparire superflua. Egli somiglia in questo al fratello maggiore della parabola di Gesù del figliol prodigo, che in realtà è la parabola dei due fratelli. Se il prodigo non viene punito e non sprofonda nel fango allora la mia fedeltà, pensa il fratello maggiore, risulta inutile, poiché la dissolutezza sarebbe meglio della fedeltà: così gli sembra. Una concezione simile si trova in Giona, si trova nella resistenza di Israele contro l’ingresso dei pagani nella promessa "senza l’opera della legge".
Ci dobbiamo domandare nel passo successivo che cosa questo significa per noi.

La Parola illumina la nostra via e la interpella

1) Nella storia il paragone tra i pagani diventati credenti e l’Israele infedele è diventato presto causa di malintesi che dobbiamo constatare e combattere in ogni generazione, poiché adesso nella Chiesa siamo diventati "Israele" e corriamo lo stesso rischio di Israele: il rischio "dell’egoismo della salvezza", il rischio di guardare Israele dall'alto in basso e considerarci automaticamente giusti.
Già Paolo, invece, diceva nella Lettera ai Romani: "Essi sono stati tagliati a causa dell’infedeltà mentre tu resti lì in ragione della fede. Non montare dunque in superbia ma temi!... Considera dunque la bontà e la severità di Dio: severità verso quelli che sono caduti, bontà di Dio invece verso di te, a condizione però che tu sia fedele a questa bontà. Altrimenti anche tu verrai reciso" (11,20ss).
Troviamo qui due parole chiave: "credere" e "restare nella bontà di Dio".
Crediamo veramente? Non soltanto in teoria, ma in modo tale che la fede diventi fondamento della nostra vita, in modo tale che lasciamo la nostra vita nelle mani di Dio? E rimanere in Dio significa rimanere nella sua bontà: questo è il nocciolo del credere.
Non temere la sua bontà – non temere che egli potrebbe essere troppo buono con gli altri cosicché la mia fede non avrebbe valore; rimanere nella sua bontà, averne parte: questo è il segno della fede.

Noi cadiamo sempre nella tentazione del fratello maggiore o dell’operaio della prima ora: crediamo che la fede abbia valore solo se gli altri hanno di meno.

Ma pensiamo che sia più bello vivere nell’infedeltà e nella sua apparenza di verità piuttosto che stare nella casa del Padre? La fede è per noi un peso che continuiamo a portare ma di cui in fondo vorremmo sbarazzarci o riconosciamo che la libertà apparente della infedeltà lascia vuota la vita, riconosciamo che è bello stare con Dio? Noi crediamo davvero solo se troviamo gioia in Dio e nella compagnia con lui e se, in forza di questa gioia, vogliamo trasmettere la sua bontà.

2) Se questi pensieri della universalità della misericordia divina e del sempre nuovo volgersi di Dio verso i pagani sono concepiti in modo superficiale, possono diventare pretesto per il relativismo e per l’indifferenza. La salvezza è comunque grazia, possiamo non meritarla, potremmo dire; è la stessa cosa essere pagani e essere cristiani, anzi forse meglio essere pagani, poiché i pagani non sono penetrati dalla giustizia che viene dalle opere e dalla presunzione, e possono così ricevere più facilmente la grazia come grazia. Allora non avrebbe neanche senso predicare il Dio della Bibbia, il Dio di Gesù Cristo. Lasciamo che i pagani rimangono pagani, Dio avrà senz’altro misericordia di loro: così si potrebbe dire.
E così ci si sente naturalmente incoraggiati a essere pagani: se io pecco sono più vicino alla grazia, ci si dice; non cadrò così facilmente nella trappola dell'essere pieno di me. Uno sguardo al testo di Giona come all’intera Bibbia, in specie al Nuovo Testamento, mostra come tutto questo sia falso e superficiale. C’è anche un essere pieno di sé dei pagani, uno star bene col peccato. Finisce che il cuore diventa cieco, che non vuole più Dio, non vuole più la grazia, non conosce più alcun pentimento. Però ciò che è cattivo rimane cattivo. La malvagità era giunta fino a Dio, ci dice il libro di Giona, e Dio decide di intervenire, ciò che è malvagio deve essere superato. I misfatti di Hitler, di Stalin, di Pol Pot, di tanti altri, così come dei loro complici e simpatizzanti, sono misfatti che rovinano il mondo e precludono la strada verso Dio.
No, il duplice invito a Giona "alzati", non era una finzione, ma un comando impellente il cui adempimento Dio imponeva a dispetto della resistenza del profeta. E Cristo non è venuto perché tutto è già buono e sta sotto il regime della grazia ma perché l’appello alla bontà e al pentimento è assolutamente necessario.
Il libro di Giona e la sua prosecuzione neotestamentaria è la più decisa negazione del relativismo e dell’indifferenza che si possa immaginare.
Anche per i cristiani di oggi vale "Alzati... e annunzia quanto ti dirò" (Gn 3,2). Anche oggi deve essere annunciato l’unico Dio, il Dio che ha fatto il cielo, la terra e il mare, e regna sulla storia.
Anche oggi è necessario agli uomini Cristo, il vero Giona. Anche oggi deve esserci pentimento perché ci sia salvezza. E come la strada di Giona fu per lui stesso una strada di penitenza, e la sua credibilità veniva dal fatto che egli era segnato dalla notte delle sofferenze, così anche oggi noi cristiani dobbiamo innanzitutto essere per primi sulla strada della penitenza per essere credibili.

3) Le parole chiave del nostro testo sono valide anche oggi e soprattutto per noi: conversione ("ognuno si converta", Gn 3,8) e penitenza. Di per sé questa parola non è usata espressamente, ma l’annuncio "quaranta giorni e Ninive sarà distrutta" (Gn 3,4) contiene il simbolismo dei quaranta giorni che indica il peregrinare di Israele nel deserto e dà con questo una concreta immagine del tema della penitenza. Traspare qui il messaggio chiave del Nuovo Testamento, che Gesù esprime con le parole "Convertitevi e credete al Vangelo" (Mc 1,15). Ciascuno di noi deve riflettere cosa per lui significhi "conversione". L’esperienza dei grandi convertiti, nella storia della Chiesa, fu che il sì a Cristo e alla sua Chiesa, il battesimo, innanzitutto comportò un inizio completamente nuovo, cambiò dal fondo la loro vita. Ma se avevano pensato che a quel punto tutto era fatto e nuovo per sempre, dovevano sperimentare che la strada della conversione andava quotidianamente ripresa e di nuovo percorsa.
Proprio questa è la differenza fra la sicurezza di Israele della sua predilezione e la Chiesa ex gentibus: la conversione non è bella e fatta, non è mai finita. L’immagine di Dio in te deve formarsi lentamente, lentamente deve accadere la trasformazione in Cristo, il "rivestirsi di Cristo". Giorno per giorno io devo combattere contro la mia pigrizia, contro abitudini che mi asservono; contro i pregiudizi nei confronti del prossimo, contro simpatie e antipatie, dalle quali mi lascio trascinare, contro la ricerca del potere e l’autocompiacimento, contro l’avvilimento e la rassegnazione; contro la vigliaccheria e il conformismo come contro l’aggressività e la prepotenza.
Giorno per giorno io devo scendere dal trono e cercare di imparare la strada di Gesù. Giorno per giorno devo spogliarmi delle mie sicurezze, superare nella fede i miei pregiudizi; non decidere da me cosa significa essere cristiano, ma imparare dalla Chiesa e lasciarmi condurre da essa. Giorno per giorno devo sopportare gli altri, come essi mi sopportano, visto che Dio sopporta tutti noi...

4) Il libro di Giona è un libro teocentrico. Il vero attore è Dio. Sì, Dio agisce – non si è tirato fuori dalla storia (cfr. Gv 5,17). E Dio ama la creazione. Si occupa degli uomini e degli animali. È un Dio che combatte ciò che è cattivo e per questo deve anche punire come giudice per fare giustizia.
L’aspetto del giudizio, della punizione, della "collera" di Dio non deve sparire dalla nostra fede. Un Dio che accetta tutto non è il Dio della Bibbia, ma un’immagine sognata. Gesù si mostra come Figlio di Dio proprio perché può prendere la frusta e irato cacciare dal tempio i venditori. Proprio il fatto che Dio non è indifferente davanti a ciò che è cattivo ci dà fiducia. Ma rimane valido che la misericordia di Dio è senza confini. Dobbiamo sempre combattere contro il peccato e non perdere il coraggio di farlo, soprattutto oggi.
Non aiuta la strada dell’imbonimento, ma soltanto attraverso il coraggio della verità, che sa anche dire di no, noi serviamo il bene. Questo coraggio si nutre della consapevolezza della misericordia di Dio, del fatto che egli ama le sue creature, ci ama.
Nella lotta contro il male in noi e attorno a noi non possiamo demordere; ma conduciamo questa battaglia nella coscienza che Dio sempre "è più grande del nostro cuore" (1Gv 3,20). Noi conduciamo la battaglia con una infinita fiducia e per amore, poiché vogliamo essere vicini a colui che amiamo e che ci ha amati per primo (1Gv 4,19). Più impariamo a conoscere Dio più possiamo dire con la saggezza veterotestamentaria: "La gioia di Dio è la nostra forza" (Ne 8,10).

La lectio divina è stata tenuta dal cardinale Joseph Ratzinger nella chiesa romana di Santa Maria in Traspontina il 24 gennaio 2003.

Traduzione di Silvia Kritzenberger e Lorenzo Cappelletti

© Copyright 30Giorni febbraio 2003

FOTO: Rembrandt, "Il ritorno del figliol prodigo"