sabato 25 luglio 2009

Joseph Ratzinger: Eucaristia, comunione, solidarietà. Cristo presente e operante nel Sacramento (da "In cammino verso Gesù Cristo")


Grazie al magistrale lavoro della nostra Gemma possiamo leggere questo bel brano tratto da "In cammino verso Gesù Cristo".
Grazie ancora
:-)
R.

Eucaristia, comunione, solidarietà

Cristo presente e operante nel sacramento

Communio

La seconda parola del nostro tema – comunione - è oggi diventata, a dire il vero, abbastanza di moda. In realtà essa è una delle parole più profonde e caratteristiche della tradizione cristiana, per cui è molto importante comprenderla in tutta l’intensità e l’ampiezza del suo significato. Mi sia consentito riferire qui un’esperienza del tutto personale. Allorché insieme con alcuni amici – in particolare Henri de Lubac , Han urs von Balthasar, Louis Bouyer, Jorge Medina – mi venne l’idea di fondare una rivista nella quale si potesse approfondire e sviluppare l’eredità del Concilio, ci mettemmo alla ricerca di un titolo che esprimesse nel modo più completo, e con una sola parola, lo scopo di quello strumento.
Va detto che già nel 1965, l’ultimo anno del Vaticano II, era stata fondata una rivista che voleva essere, per così dire, la voce permanente del Concilio e del suo spirito: perciò fu chiamata Concilium.
Su ciò potè influire il fatto che Hans Kung, nel suo libro Strukturen der Kirche, riteneva d’aver scoperto un’equivalenza tra le parole ekklesia (Chiesa) e concilium. Esse conterrebbero la radice greca kalein (chiamare), per chi ekklesia significa “convocare/convocazione”, e concilium “adunare/adunanza”: in definitiva ambedue i termini direbbero la medesima cosa. Si può dunque dedurre una sorta d’ identità tra i concetti di “chiesa”e di “concilio”. La Chiesa sarebbe per sua natura il permanente Concilio di Dio nel mondo. La Chiesa andrebbe dunque pensata “conciliarmene” e attuata al modo di un Concilio; viceversa, il Concilio sarebbe la realizzazione in assoluto più intensa della Chiesa, come a dire: la Chiesa in attività.
Negli anni successivi avevo condiviso in qualche misura questa concezione, a prima vista illuminante, che delineava la Chiesa quale permanente “riunione consigliare” (ted. Ratsversammlung) di Dio nel mondo: una visione senz’altro coinvolgente e dalle conseguenze pratiche per nulla trascurabili. Nondimeno, pur convinto che l’impostazione di Hans Kung contenesse qualcosa di vero e di attendibile, sentivo che necessitava di un’incisiva correzione. Sintetizzo, qui di seguito, il risultato dei miei studi d’ allora.

Sia dalla ricerca filologica che dalla comprensione oggettiva della Chiesa e del Concilio nell’antichità, risultò che un Concilio può sicuramente costituire un evento vitale per la Chiesa, ma che la Chiesa in se stessa è qualcosa di più e la sua essenza assai più profonda.

La Chiesa fa il Concilio, ma non è un Concilio. La Chiesa non esiste in primo luogo per deliberare, ma per la vita della Parola che ci è donata.

A quel punto, quale concetto portante, in grado di esprimere l’essenza stessa della Chiesa, mi si offrì il termine koinomial/comunione. Potevo dunque sintetizzare così il risultato delle mie ricerche: la Chiesa convoca e celebra i Concili, ma essa è comunione. La sua struttura non è perciò designabile come “conciliare”, bensì come “comunionale”.
Quando divulgai queste idee nel mio libro Das neue Volk Gottes
(1969), il concetto di “comunione” non godeva di molta rilevanza nei circoli teologici ed ecclesiali, per cui anche le mie conclusioni al riguardo ottennero scarsa attenzione. Furono comunque per me ispiratrici nella ricerca del titolo per la nuova rivista, che venne poi effettivamente chiamata Communio. Un riconoscimento pubblico tale concetto l’otterrà soltanto con il Sinodo dei Vescovi nel 1985. Fino allora, quale nuova formula chiave per indicare la Chiesa era invalsa quella di “Popolo di Dio”, in cui si ritenevano sintetizzate le intenzioni del Vaticano II.. Questo poteva anche essere vero, se si fosse intesa l’espressione in tutta la sua profondità biblica e nell’orizzonte vasto in cui il Concilio l’aveva utilizzata. Ma quando una grande parola si trasforma in uno slogan, è inevitabilmente destinata ad una riduzione, quasi alla banalizzazione. Così il Sinodo del 1985
ha cercato un nuovo inizio, dando la preminenza alla parola e al concetto di “comunione”. Questo rimanda immediatamente al nucleo centrale, eucaristico, della Chiesa, e in questo modo radica la comprensione della Chiesa nel luogo dell’incontro intimo tra Gesù e gli uomini, nell’atto del suo donarsi per noi.

Non si potè tuttavia evitare che anche questa grande parola, fondamentale nel Nuovo Testamento, subisse nell’uso corrente un’interpretazione altamente riduttiva. Chi oggi parla di “ecclesiologia di comunione”, mira in generale a due cose: vuole contrapporre un’ecclesiologia pluralista, quasi federativa, ad una concezione centralistica di Chiesa; inoltre vuole sottolineare l’interconnessione delle Chiese locali nel mutuo dare e ricevere, nonchè il pluralismo delle forme espressive in merito al culto, alla disciplina, alla dottrina. Anche qualora simili tendenze non siano sviluppate nei dettagli, la “comunione” è perlopiù compresa in senso orizzontale, come un vasto intreccio di comunità. L’idea di una struttura di “comunione della Chiesa” si differenzia allora ben poco dalla suaccennata visione “conciliare”: domina l’orizzontalità, il concetto dell’autoarmonizzarsi dentro una vasta comunità. C’è sicuramente molto di vero in tutto questo, ma non è corretto l’approccio di base, cosicché si vanifica la profondità di ciò che il Nuovo Testamento e, al suo seguito, il Vaticano II e il Sinodo del 1985 volevano esprimere.
Per chiarire il significato essenziale del concetto di communio mi rifaccio a due grandi testi del Nuovo Testamento. Il primo è costituito da 1Cor10,16s, dove Paolo dice: “Il calice della benedizione che benediciamo non è comunione (koinonia) con il sangue di Cristo? Il pane che spezziamo non è comunione con il corpo di Cristo? Poiché è un (solo) pane, (noi) i molti siamo un (solo) corpo: infatti tutti partecipiamo dell’unico pane”. Qui il concetto di comunione è intimamente collegato al sacramento eucaristico, per cui ben a ragione nel linguaggio della Chiesa si continua a designare la ricezione del sacramento semplicemente come “ comunicarsi”. Balza subito all’evidenza anche il significato sociale e pratico di questo evento sacramentale, con una radicalità non certo raggiungibile in una visione esclusivamente orizzontale. Ci viene detto, infatti, che mediante il sacramento noi entriamo, per così dire, in comunione di sangue con Gesù Cristo, dove “sangue”, secondo la visione ebraica, sta per “vita”: si afferma così una compenetrazione della vita di Cristo nella nostra. In ambito eucaristico “sangue” richiama naturalmente anche il dono di un’esistenza che si offre per noi e a noi. Pertanto la koinomia con il sangue è anche inserimento nella dinamica di questa vita, di questo “sangue versato”, così che la nostra esistenza può divenire essa stessa un “essere- per –gli- altri”, come ci è dato vedere nel cuore aperto di Cristo.
Per un certo aspetto è ancor più pregnante il riferimento al pane: esso significa la comunione col corpo di Cristo, che Paolo equipara al divenire “una sola carne” dell’uomo e della donna (cfr. 1Cor6,17s; Ef 5,26-32). L’Apostolo ne parla anche da un altro punto di vista: è un solo e identico pane quello che noi tutti riceviamo. In senso rigoroso il “pane” – la nuova manna che Dio ci dona – è l’unico e medesimo Cristo per tutti. E’ davvero il solo e identico Signore che noi riceviamo nell’eucaristia, o meglio: lui ci accoglie e ci assume in sé. Sant’Agostino descrive questa realtà come attraverso una visione: “Mangia il pane dei forti, e tu non trasformerai me in te stesso, ma io trasformerò te in me”. Ciò significa: mentre il cibo materiale che comunemente mangiamo è assimilato dal corpo e diventa parte integrante di noi, questo “pane” è di tutt’altro genere, è sotto ogni aspetto più eccellente di noi. Non lo assimiliamo a noi, ma esso ci assimila a sé, rendendoci conformi a Cristo, quasi – come dice Paolo – membra del suo corpo, una cosa sola in lui. Noi tutti “mangiamo” la stessa persona, non solo la stessa cosa; siamo così strappati alla nostra singola individualità e immessi in una più grande. Assimilati a Cristo, mediante la comunione con lui siamo anche uniti tra di noi, resi identici, una cosa sola in lui, membra gli uni degli altri. Comunicare con Cristo è anche, per essenza, comunicare gli uni con gli altri. Non siamo più soltanto gli uni accanto agli altri, ciascuno per se stesso, ma chiunque “ si comunica” è come se diventasse per me “osso delle mie ossa e carne della mia carne” (cfr. Gn 2, 23). Una vera spiritualità della comunione, pertanto, oltre alla profondità cristologia esige anche un carattere sociale, come già oltre mezzo secolo fa Henri de Lubac ha spiegato in modo eccellente nel suo libro Cattolicesimo.
Accostandomi all’eucaristia io devo guardare totalmente a Cristo, lasciarmi trasformare da lui, persino avvolgere dal suo fuoco divorante. Ma non posso mai dimenticare che proprio in questo modo io mi unisco con ogni altro comunicante: con chi mi sta accanto in quel momento, e forse non mi suscita simpatia; ma anche con i lontani, in Asia, Africa, America o qualunque altro luogo. Diventando una cosa sola con l’altro, io imparo ad aprirmi e a lasciarmi coinvolgere: questo prova l’autenticità del mio amore per Cristo. Quando sono unito a Cristo, lo sono insieme con l’altro, e quest’unità non si limita al momento della comunione: lì inizia soltanto, ma per divenire vita, carne e sangue nel mio quotidiano stare con gli altri e accanto agli altri.
In questo modo però, la realtà individuale del mio comunicarmi si rivela inseparabilmente legata all’essere e alla vita della Chiesa . Questa, infatti, non si autocostituisce in una federazione di comunità, ma nasce dall’unico pane, dall’unico Signore, e grazie a lui è anch’essa per prima cosa e ovunque una e unica, unico corpo generato da un unico pane. La Chiesa è una non a motivo di un governo centralistico, ma in forza del suo centro comune rappresentato da un solo Signore, che mediante un solo pane la genera come un solo corpo. La sua unità, pertanto, è assai più profonda di quella che ogni altra unione umana potrebbe mai raggiungere. Compresa quale espressione dell’intima unione di ogni singolo con il Signore, l’eucaristia diventa anche al massimo grado un sacramento sociale.
I grandi santi sociali sono stati sempre anche grandi santi eucaristici. A modo d’esempio desidero menzionare soltanto due casi. Dapprima l’amabile figura di san Martino da Porres, nato nel 1569 a Lima (Perù) da madre afroamericana e da padre spagnolo. Martino viveva in perenne adorazione della Presenza eucaristica, trascorreva intere nottate davanti al crocifisso, mentre di giorno si prendeva cura dei malati e dei diseredati, ai quali proprio come mulatto si sentiva particolarmente vicino. Il suo incontro con il Signore, che si dona a tutti noi dalla croce e mediante l’unico pane ci rende membra di un solo corpo, si traduceva coerentemente nel servizio ai sofferenti, ai deboli e ai dimenticati. Ai nostri giorni, invece, è particolarmente viva davanti agli occhi del mondo l’immagine di Madre Teresa di Calcutta. Ogni volta che si apprestava, con le sue suore, ad aprire una nuova casa per i morenti e gli emarginati, la prima cosa che chiedeva era un luogo per il tabernacolo, poiché sapeva che soltanto da lì poteva venire la forza per compiere quel servizio d’amore. Chi conosce il Signore nel tabernacolo, lo riconosce anche nei sofferenti e nei bisognosi. Egli sarà tra coloro ai quali il giudice delle nazioni dirà: “Avevo fame e mi avete dato da mangiare; avevo sete e mi avete dato da bere; ero nudo e mi avete rivestito; ero malato e mi avete visitato; ero in carcere e siete venuti a trovarmi “ (MT 25,35s).
Sempre riguardo al tema “comunione” (koinomia), desidero richiamarmi brevemente ad un altro importante testo del NT. All’inizio della sua prima lettera (1,3-7), Giovanni parla del suo incontro personale avuto con la parola fatta carne: egli può parlare di ciò che ha visto con i suoi occhi, di ciò che ha toccato con le sue mani. Quest’incontro ha significato per lui il dono della koinomia con il Padre e il Figlio suo Gesù Cristo, è stato un vero “comunicarsi”. Questa comunione con il Dio vivente – ci conferma Giovanni –mette l’uomo a contatto con la luce. Gli si aprono gli occhi ed egli vive nella luce, nella verità di Dio che si esprime nell’unico e universale comandamento dell’amore. La comunione con la “Parola della vita” diviene vita giusta, diviene amore e comunione reciproca: “Se camminiamo nella luce, come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri” (1Gv 1,6). Qui troviamo la medesima logica della communio già riscontrata in Paolo: la comunione con Gesù diventa comunione con Dio stesso, comunione con la luce e con l’amore; diventa vita retta, e noi ci uniamo gli uni agli altri nella verità.. Solamente comprendendo la comunione in questa profondità e ampiezza, noi abbiamo qualcosa da dire al mondo.

Da Joseph Ratzinger, "In cammino verso Gesù Cristo", San Paolo 2004