domenica 30 gennaio 2011

Il celibato sacerdotale nelle risposte del card. Ratzinger a Peter Seewald nel libro-intervista "Il sale della terra" (1996)

Grazie al sapiente e preziosissimo lavoro della nostra Gemma leggiamo le risposte dell'allora card. Ratzinger a Seewald nel libro intervista "Il sale della terra". Si tratta di un testo davvero illuminante.
Davvero un bel regalo :-)

R.

Da Joseph Ratzinger, "Il sale della terra: Cristianesimo e Chiesa cattolica nel XXI secolo" – Un colloquio con Peter Seewald, Edizioni San Paolo 2005

II. Problemi della Chiesa cattolica

Il celibato

Stranamente niente provoca più rabbia nella gente che il problema del celibato. Anche se questo riguarda solo una minima parte della popolazione della Chiesa. Perché esiste il celibato?

Esso è legato a una frase di Cristo: Ci sono coloro - si legge nel Vangelo- che per amore del regno dei cieli, rinunciano al matrimonio e, con tutta la loro esistenza, rendono testimonianza al regno dei cieli.
La Chiesa è arrivata molto presto alla convinzione che essere sacerdoti significa dare questa testimonianza per il regno dei cieli. Essa poteva riallacciarsi analogamente a un parallelo veterotestamentario di altra natura. Israele entra nella terra promessa, undici tribù ricevono ciascuna la propria porzione di territorio; solo la tribù di Levi, quella dei sacerdoti, non riceve territorio né eredità; la sua eredità è solo Dio.
Praticamente ciò significa che i suoi membri vivono solo dei doni del culto e non, come le altre famiglie, della coltivazione della terra. Il punto essenziale è che essi non hanno alcuna proprietà. Il salmo 16 dice: tu sei la mia parte di eredità e il mio calice, ti ho ricevuto in sorte, Dio è la mia terra. Questa figura, che cioè nell’Antico Testamento il sacerdote non ha terra e vive, per così dire, di Dio – e perciò lo testimonia davvero –in seguito, in riferimento alla parola di Gesù è stata interpretata così: la porzione di terra in cui vive il sacerdote è Dio stesso.
Oggi possiamo capire con difficoltà questa rinuncia, poiché il rapporto con il matrimonio e i figli si è modificato. Dover morire senza figli, un tempo voleva dire aver vissuto senza scopo: una volta dispersa la traccia della mia vita, io sono morto del tutto. Se invece ho dei figli, continuerò a vivere in loro, grazie a una specie di immortalità, ottenuta attraverso la discendenza. Perciò è una superiore condizione di vita l’aver eredi e restare, attraverso di loro, nella terra dei viventi.
La rinuncia al matrimonio e alla famiglia è quindi da intendersi nella seguente prospettiva: rinuncio a ciò che per gli uomini non solo è l’aspetto più normale, ma il più importante. Rinuncio a generare io stesso vita dall’albero della vita, ad avere una terra in cui vivere e vivo con la fiducia che Dio è davvero la mia terra. Così rendo credibile anche agli altri che c’è un regno dei cieli.
Non solo con le parole, ma con questo tipo di esistenza sono testimone di Gesù Cristo e del Vangelo e gli metto così a disposizione la mia vita.
Il celibato ha dunque un significato contemporaneamente cristologico e apostolico. Non si tratta solo di risparmiare tempo - ho un po’ di tempo a disposizione perchè non sono un padre di famiglia – il che sarebbe troppo banale e pragmatico. Si tratta di un’esistenza che punta tutto sulla carta di Dio, e tralascia proprio quanto normalmente rende matura e promettente un’esistenza umana.

D’altra parte qui non si tratta di un dogma. Il problema sarà forse, un giorno, aperto al dibattito, nel senso di una libera scelta tra una forma di vita celibataria e una non celibataria?

Si, certo, non si tratta di un dogma. E’ una consuetudine venutasi a creare assai presto nella Chiesa, a seguito di sicuri riferimenti biblici. Ricerche più recenti dimostrano che il celibato risale a molto prima di quanto permettono di riconoscere le fonti del diritto di solito conosciute, fino al secondo secolo.
Anche in Oriente era molto più diffuso di quanto potevamo sapere finora. Qui solo nel secolo VII le due strade si separano. Da sempre in Oriente il monachesimo rappresenta la base portante del sacerdozio e della gerarchia e, per questo, aanche lì il celibato ha davvero grande importanza.
Non è un dogma, è un modo di vivere che è cresciuto nella Chiesa e che naturalmente comporta sempre il pericolo di una caduta. Se si punta così in alto, ci possono essere delle cadute. Penso che ciò che oggi irrita la gente nei confronti del celibato è che essa vede quanti preti non sono interiormente d’accordo e lo vivono ipocritamente, male, o non lo vivono affatto o solo con tormento e dicono…

…che distrugge gli uomini…

Quanto più un’epoca è povera di fede, tanto più frequenti sono le cadute.
Così il celibato perde di credibilità e il suo vero messaggio non viene alla luce. Si deve chiarire che i periodi di crisi del celibato corrispondono sempre a periodi di crisi del matrimonio. Infatti oggi non viviamo solo la crisi del celibato, lo stesso matrimonio viene sempre più messo in discussione come fondamento della nostra società.
Nelle legislazioni degli Stati occidentali esso è sempre più messo allo stesso livello di altri stili di vita e viene così dissolto anche come forma giuridica. La fatica di vivere veramente il matrimonio non è in fondo da meno. In pratica, con l’abolizione del celibato assisteremmo solo alla nascita di un nuovo tipo di problematica, quella dei preti divorziati. La Chiesa evangelica conosce bene questo problema. Se ne deduce che le forme elevate di esistenza umana sono sempre soggette a qualcosa che le minaccia. La conseguenza che ne trarrei, non è, però, di perdere la speranza e dire: “non ci riusciamo più”, ma dobbiamo tornare a credere, ad avere più fede. E, ovviamente, dobbiamo essere ancora più cauti nella scelta degli aspiranti sacerdoti. L’importante è che uno scelga davvero liberamente e non dica: “ si, voglio diventare prete, e allora mi carico anche di questo”, oppure; “in fondo le ragazze non mi interessano più di tanto, quindi non sarà un gran problema”. Questo non è un corretto punto di partenza. L’aspirante sacerdote deve riconoscere nella sua vita la forza della fede e deve sapere che solo in essa può vivere il celibato. Allora il celibato può diventare una testimonianza che dice qualcosa agli uomini e che riesce anche a dar loro coraggio in relazione al matrimonio. Entrambe le istituzioni sono strettamente legate l’una all’altra. Se una fedeltà non è più possibile, anche l’altra non ha più senso: l’una sostiene l’altra.

Suppone quindi che esista una relazione tra la crisi del celibato e quella del matrimonio

Mi sembra molto evidente.
In entrambi i casi la persona singola si trova di fronte al problema di una scelta di vita definitiva: a 25 anni posso già disporre di tutta la mia vita? E’ qualcosa di commisurato all’uomo? C’è la possibilità di farcela, di crescere e di maturare in modo vivo oppure devo tenermi costantemente aperto per nuove possibilità? La domanda fondamentale è la seguente: può l’uomo prendere una decisione definitiva per quel che riguarda l’aspetto centrale della sua vita? Può egli sostenere per sempre un legame nella decisione circa il modo della sua vita? Al riguardo mi permetto due osservazioni: lo può solamente se è ancorato saldamente alla fede; secondo: solo in questo caso egli perviene alla piena dimensione dell’amore e della maturazione umana. Tutto ciò che resta al di sotto del matrimonio monogamico è comunque troppo poco per l’uomo.

Ma se i numeri sulle infrazioni del celibato sono esatti, allora, de facto, esso è già fallito da molto tempo. Per ripeterlo ancora una volta: forse un giorno si arriverà ad aprire il dibattito circa la possibilità di una libera scelta?

Libera deve esserlo in ogni caso. Infatti, prima dell’ordinazione si deve confermare con una promessa solenne che lo si fa e lo si vuole in tutta libertà. Ho sempre una brutta sensazione, quando in seguito si dice che si è trattato di un celibato forzato, che è stato imposto. Ciò va contro la parola che si è data all’inizio. Nell’educazione dei sacerdoti si deve far attenzione che questa promessa sia presa sul serio. Questo è il primo punto. Il secondo è che dove vive la fede e nella misura in cui una Chiesa vive la fede, allora vien fuori anche la forza di sostenere queste scelte.
Credo che, rinunciando a questa convinzione, non migliori nulla, ma si finisca per passare sopra a una crisi della fede. Naturalmente si tratta di una tragedia per una Chiesa, quando molti conducono, più o meno, una doppia vita.
Non sarebbe, purtroppo, la prima volta che accade. Nel tardo medioevo abbiamo avuto una situazione simile, che poi fu una delle cause che portarono alla Riforma protestante. Si tratta di un avvenimento tragico sul quale bisogna riflettere, anche per amore degli uomini che poi soffrono davvero molto profondamente. Ma credo, e stando ai risultati dell’ultimo sinodo questo è anche il convincimento della grande maggioranza dei vescovi, che il vero problema sia la crisi della fede, e che non si hanno preti migliori e più numerosi dissociando il ministero e lo stato di vita, perché in tal modo si finisce solo per ignorare una crisi di fede e per farsi ingannare da soluzioni solo apparenti.

Ritorniamo ancora alla mia domanda: crede che i preti forse un giorno potranno scegliere liberamente tra una vita celibataria ed una non celibataria?

Questo l’avevo già capito. Dovevo solo chiarire che, comunque, secondo quel che ciascuno dice prima di essere ordinato sacerdote, non ci sono persone costrette al celibato. Si viene accettati come prete solo se lo si vuole spontaneamente.
La domanda è allora: quanto profondamente sono legati tra loro sacerdozio e celibato? La volontà di optare soltanto per uno solo dei due termini non implica già di per sé una minore considerazione del sacerdozio? Credo che su questo punto non ci si possa richiamare semplicemente alle Chiese ortodosse e alla cristianità protestante. Quest’ultima ha una visione completamente diversa del ministero: è una funzione, un servizio derivato dalla comunità, ma non è un sacramento, non è il sacerdozio in senso proprio.
Nella Chiesa ortodossa, abbiamo, da un lato, la forma perfetta di sacerdozio, cioè i preti-monaci, gli unici che possono diventare vescovi. Accanto a loro ci sono i preti secolari che, se vogliono sposarsi, devono farlo prima della loro consacrazione; essi si occupano poco della cura delle anime, ma propriamente, sono solo ministri del culto.
Per questo aspetto è quasi un’altra concezione di sacerdozio. Noi, invece , riteniamo che chiunque sia sacerdote, deve esserlo nella maniera di un vescovo e che non deve esistere una tale divisione.
Nessuna consuetudine di vita della Chiesa deve essere interpretata come un assoluto, per quanto sia profondamente radicata e fondata. Sicuramente la Chiesa si dovrà porre ancora il problema, lo ha già fatto recentemente in due sinodi. Ma penso che a partire da tutta la storia della cristianità occidentale e anche dall’intima concezione che sta alla base di tutto ciò, la Chiesa non deve credere di ottenere molto orientandosi verso la dissociazione di sacerdozio e celibato; se lo facesse, finirebbe comunque per perdere qualcosa.

Si può quindi concludere che Lei non crede che un giorno ci saranno preti sposati nella Chiesa cattolica?

Comunque non in un futuro prevedibile. Per essere sincero, devo dire che abbiamo già dei preti sposati, arrivati a noi come convertiti dalla Chiesa anglicana o da diverse comunità evangeliche. Quindi, in casi eccezionali, questo è possibile, ma si tratta, appunto, di eccezioni. E penso che anche in futuro rimarranno tali.

Ma l’obbligo del celibato non dovrebbe venire meno, anche solo in considerazione del fatto che la Chiesa, diversamente, non avrà più preti?

Non credo che quest’argomento sia veramente adeguato.
Il problema delle vocazioni sacerdotali va visto sotto molti aspetti. Ha prima di tutto a che fare con il numero di bambini. Quando oggi il numero medio di bambini per famiglia è 1,5, il problema dei candidati al sacerdozio si pone in modo ben diverso dai periodi in cui le famiglie erano notevolmente più numerose.
Nelle famiglie, poi, ci sono ben altre aspettative. Oggi sperimentiamo che i maggiori ostacoli al sacerdozio frequentemente vengono dai genitori, che hanno ben altre attese per i loro figli. Questo è il primo punto. Il secondo è che il numero di cristiani praticanti è molto diminuito e perciò si è ridotta anche la base di selezione. Considerato il numero dei bambini e il numero dei praticanti, probabilmente il numero dei nuovi sacerdoti non è affatto diminuito. Quindi bisogna tener conto di questa proporzione. La prima domanda allora è: ci sono credenti? Solo dopo viene la seconda domanda: da essi escono dei sacerdoti?

Da Joseph Ratzinger, "Il sale della terra: Cristianesimo e Chiesa cattolica nel XXI secolo" – Un colloquio con Peter Seewald, Edizioni San Paolo 2005