domenica 9 agosto 2009

Ogni ideologia che estromettesse alcuni esseri umani dalla categoria di coloro che meritano rispetto, segnerebbero un ritorno verso la barbarie (1996)


La grandezza dell’essere umano è la sua somiglianza con Dio

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 11 maggio 2005 (ZENIT.org).

Pubblichiamo di seguito l’intervento pronunciato dal cardinale Joseph Ratzinger in occasione della Conferenza Internazionale organizzata dal Pontificio Consiglio per la Pastorale della Salute sul tema: “A immagine e somiglianza di Dio: Sempre? Il disagio della mente umana” (28 novembre 1996).

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Davanti al tema di questo convegno internazionale, emergono in me ricordi inquietanti. Permettetemi, vi prego, di raccontarvi a modo di introduzione questa esperienza personale, che ci riporta all’anno 1941, quindi nel tempo della guerra e del regime nazionalsocialista.
Una delle nostre zie, che visitavamo frequentemente, era madre di un robusto figliolo, che era qualche anno più giovane di me, ma dimostrava progressivamente i segni tipici della sindrome di down.
Suscitava simpatia nella semplicità della sua mente offuscata, e sua madre, che aveva già perduto una figlia per morte prematura, gli era sinceramente affezionata.
Ma nel 1941 fu ordinato, da parte delle autorità del Terzo Reich, che egli doveva essere portato in un ricovero per ricevere un’assistenza migliore. Non si avevano ancora sospetti sulla operazione di eliminazione dei disabili mentali, che già era stata iniziata. Dopo poco tempo giunse la notizia che il bambino era morto di polmonite ed il suo corpo era stato cremato.
Da quel momento si moltiplicarono le notizie di tal genere. Nel villaggio, nel quale avevamo abitato prima, facevamo volentieri visita ad una vedova, che era rimasta senza figli e si rallegrava per la visita dei bambini del vicinato. La piccola proprietà, che aveva ereditato da suo padre, poteva a stento darle di che vivere, ma era di buono spirito, anche se non senza qualche timore per il suo futuro.
Più tardi venimmo a sapere che la solitudine, nella quale sempre più venne a trovarsi, aveva ottenebrato sempre più la sua mente: il timore per il futuro era divenuto patologico, così che a stento osava ancora mangiare, perché temeva sempre per il domani, nel quale forse sarebbe rimasta completamente senza cibo da mettere sotto i denti. Fu allora classificata come mentalmente disturbata, portata in un ricovero, e anche in questo caso giunse tosto la notizia che era morta di polmonite.
Poco dopo accadde nel nostro attuale villaggio nuovamente la stessa cosa: il piccolo podere, attiguo alla nostra casa, era fino allora affidato alle cure di tre fratelli non sposati, ai quali apparteneva. Erano ritenuti mentalmente malati, ma erano nondimeno in grado di occuparsi della loro casa e della loro proprietà. Anch’essi sparirono in un ricovero e poco dopo fu riferito di loro che erano morti. A quel punto non ci poteva più essere dubbio, circa quanto stava accadendo: si trattava di una sistematica eliminazione di tutti coloro, che non erano considerati come produttivi. Lo stato si era arrogato il diritto di decidere chi meritava di vivere e chi doveva essere privato dell’esistenza in vantaggio della comunità e di se stesso, perché non poteva essere utile né agli altri né a se stesso.
Agli orrori della guerra, che divenivano sempre più sensibili, questo fatto aggiunse un nuovo, diverso sgomento: avvertivamo la gelida freddezza di questa logica dell’utilità e del potere. Sentivamo come l’uccisione di queste persone umiliava e minacciava noi stessi, l’essenza umana che era in noi: se la pazienza e l’amore, che vengono dedicati alle persone sofferenti, vengono eliminati dall’esistenza umana come perdita di tempo e di denaro, allora non viene fatto solo del male agli uccisi, ma in quel caso vengono mutilati nello spirito proprio gli stessi sopravvissuti. Ci rendevamo conto che là ove il mistero di Dio, la sua dignità intoccabile in ciascun uomo non viene più rispettata, non vengono minacciati solo i singoli, ma l’essere umano stesso è in pericolo. Nel silenzio paralizzante, nel timore, che tutti bloccava, fu allora come una liberazione, quando il Cardinale von Galen levò la sua voce e ruppe la paralisi del timore, per difendere nei disabili mentali l’uomo stesso, immagine di Dio.
A tutte le minacce contro l’uomo derivanti dal calcolo del potere e dell’utile si oppone la luminosa parola di Dio, con la quale la Genesi introduce il racconto della creazione dell’uomo: creiamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza – faciamus hominem ad imaginem et similitudinem nostram, traduce la Volgata (Gen 1,26). Ma cosa si intende con questa parola? In cosa consiste la somiglianza divina dell’uomo? Il termine all’interno dell’Antico Testamento è per così dire un monolito; non appare più nell’Antico Testamento ebraico, anche se il Salmo 8 – “Cos’è l’uomo, perché tu ti ricordi di lui?” – rivela una parentela interiore con esso. Viene ripreso solo nella letteratura sapienziale.
Il Siracide (17,2) vi fonda la grandezza dell’essere umano, senza propriamente voler dare un’interpretazione del significato della somiglianza con Dio.
Il libro della Sapienza (2,23) fa un passo ulteriore e vede l’essere immagine di Dio essenzialmente fondato nell’immortalità dell’uomo: ciò che rende Dio Dio e lo distingue dalla creatura è proprio la sua immortalità e perennità. Immagine di Dio la creatura è quindi proprio per il fatto che partecipa dell’immortalità – non per sua natura, ma come dono del creatore. L’orientamento alla vita eterna è ciò che fa diventare l’uomo il corrispondente creato di Dio.
Qui la riflessione potrebbe continuare e si potrebbe anche dire: vita eterna significa qualcosa di più che una semplice sussistenza eterna. È riempita di un senso, e solo così è vita che merita ed è capace di eternità. Eterna una realtà può essere solo a condizione che partecipi di ciò che è eterno: all’eternità della verità e dell’amore. Orientamento all’eternità sarebbe quindi orientamento alla eterna comunione di amore con Dio, e l’immagine di Dio rinvierebbe quindi di sua natura oltre la vita terrena. Non potrebbe affatto essere determinata staticamente, essere legata a qualche qualità particolare, ma sarebbe questo essere protesi oltre il tempo della vita terrena; si potrebbe comprendere solo nella tensione al futuro, nella dinamica verso l’eternità. Chi nega l’eternità, chi vede l’uomo solo come intramondano, non avrebbe pertanto in partenza alcuna possibilità di penetrare l’essenza della somiglianza con Dio.
Ma questo è solo accennato nel libro della Sapienza, e non ulteriormente sviluppato.
Così l’Antico Testamento ci lascia con una questione aperta, e si deve dar ragione ad Epifanio, che di fronte a tutti i tentativi di precisare il contenuto della somiglianza divina, afferma che non si deve “cercare di definire ove si colloca l’immagine, ma confessarne l’esistenza nell’uomo, se non si vuol ingiuriare la grazia di Dio” (Panarion, LXX, 2,7).
Ma noi cristiani leggiamo in realtà l’Antico Testamento sempre nella tonalità dell’unica Bibbia, nell’unità con il Nuovo Testamento e riceviamo da esso la chiave per comprendere rettamente i testi. Come il racconto della creazione “In principio creò Dio” riceve la sua corretta interpretazione solo nella sua rilettura giovannea “In principio era la Parola”, così anche qui. In questo momento naturalmente io non posso, nel quadro di una breve prolusione, presentare la ricca e pluristratificata testimonianza del Nuovo Testamento relativamente al nostro problema. Cercherò semplicemente di richiamare due temi.
Si deve rilevare innanzitutto e come fatto più importante che nel Nuovo Testamento Cristo viene designato come “l’immagine di Dio” (2 Cor 4,4; Col 1,15). I Padri hanno inserito qui un’osservazione linguistica, che forse non è così sostenibile, ma corrisponde certamente all’orientamento interiore del Nuovo Testamento e della sua reinterpretazione dell’Antico. Essi dicono: solo di Cristo viene insegnato che egli è “la immagine di Dio”, l’uomo invece non è la immagine, ma ad imaginem, creato ad immagine, secondo l’immagine. Egli diventa immagine di Dio, nella misura in cui entra in comunione con Cristo, si conforma a lui. Detto con altre parole: l’immagine originaria dell’uomo, che a sua volta ripresenta l’immagine di Dio, è Cristo, e l’uomo è creato a partire dalla sua immagine, su sua immagine. La creatura umana è allo stesso tempo progetto preliminare in vista di Cristo, ovvero: Cristo è l’idea fondamentale del Creatore, ed egli forma l’uomo in vista di lui, a partire da questa idea fondamentale.
Il dinamismo ontologico e spirituale, che si cela in questa concezione, diventa particolarmente evidente in Rom. 8,29 e 1 Cor. 15, 49, ma anche in 2 Cor. 4,6. Secondo Rom. 8, 29 gli uomini sono predestinati, “ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli”. Questa conformazione all’immagine di Cristo si compie nella risurrezione, nella quale egli ci ha preceduto – ma la risurrezione, è necessario richiamarlo già qui, presuppone la croce.
La prima Lettera ai Corinti distingue il primo Adamo, che divenne “anima vivente” (15,45; cfr Gen 2,7) e l’ultimo Adamo, che divenne Spirito datore di vita. “E come abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra, così porteremo l’immagine dell’uomo celeste” (15,49). Qui è rappresentata con tutta chiarezza la tensione interiore dell’essere umano fra fango e spirito, terra e cielo, origine terrena e futuro divino. Questa tensione dell’essere umano nel tempo e oltre il tempo appartiene all’essenza dell’uomo. E questa tensione lo determina proprio nel centro della vita in questo tempo. Egli è sempre in cammino verso se stesso o si allontana da se stesso; è in cammino verso Cristo o si allontana da lui. Egli si avvicina alla sua immagine originaria, o la nasconde e la rovina.
Il teologo di Innsbruck F. Lakner ha felicemente espresso questa concezione dinamica della somiglianza divina dell’uomo, caratteristica del Nuovo Testamento, nel seguente modo: “L’essere immagine di Dio dell’uomo si fonda sulla predestinazione alla filiazione divina attraverso la incorporazione mistica in Cristo”; l’essere immagine è quindi finalità insita nell’uomo, fin dalla creazione, “verso Dio per mezzo della partecipazione alla vita divina in Cristo”.
Ci avviciniamo così ora però alla questione decisiva per il nostro tema: questa somiglianza divina può essere distrutta? ed eventualmente, come? Esistono esseri umani, che non sono immagine di Dio? La Riforma nella sua radicalizzazione della dottrina del peccato originale aveva risposto affermativamente a questa domanda e aveva detto: sì, con il peccato l’uomo può distruggere in se stesso l’immagine di Dio e di fatto l’ha distrutta. Infatti l’uomo peccatore, che non vuol riconoscere Dio e che non rispetta l’uomo o addirittura lo uccide – costui non ripresenta l’immagine di Dio, ma la deturpa, contraddice Lui, che è Santità, Verità e Bontà.
Ricordando quanto detto all’inizio, ciò può e deve portarci alla domanda: in chi è più oscurata l’immagine di Dio, più sfigurata o più estinta – nel freddo assassino, ben cosciente di se stesso, potente e forse anche intelligente, che fa se stesso Dio e deride Dio o nel sofferente innocente, nel quale la luce della ragione guizza assai flebile o addirittura non è più percepibile? Ma la domanda in questo momento è prematura. Dapprima dobbiamo dire: la tesi radicale della Riforma si è dimostrata come insostenibile, proprio a partire dalla Bibbia.
L’uomo è immagine di Dio in quanto uomo. E finché egli è uomo, è un essere umano, egli è misteriosamente proteso a Cristo, al Figlio di Dio fattosi uomo e quindi orientato al mistero di Dio. L’immagine divina è connessa con l’essenza umana in quanto tale, e non è in potere dell’uomo distruggerla completamente.
Ma ciò che l’uomo certamente può fare è lo sfiguramento dell’immagine, la contraddizione interiore con essa. Qui occorre citare ancora una volta Lakner: “...la forza divina riluce proprio nel laceramento causato dalle contraddizioni... in questo mondo l’uomo come immagine di Dio è pertanto l’uomo crocifisso”. Fra la figura dell’Adamo terreno formato dal fango, che Cristo in comune con noi ha assunto nell’incarnazione e la gloria della resurrezione sta la croce: il cammino dalle contraddizioni e dagli sfiguramenti dell’immagine verso la conformazione con il Figlio, nel quale si manifesta la gloria di Dio, passa attraverso il dolore della croce. Fra i Padri della Chiesa, Massimo il Confessore ha più di altri riflettuto su questa connessione fra somiglianza divina e croce.
L’uomo, che è chiamato alla “sinergia”, alla collaborazione con Dio, si è invece posto in opposizione a lui. Questa opposizione è “un’aggressione alla natura dell’uomo”. Essa “sfigura il vero volto dell’uomo, l’immagine di Dio, poiché distoglie l’uomo da Dio e lo rivolge verso se stesso ed erige fra gli uomini la tirannia dell’egoismo”. Cristo dall’interno della stessa natura umana ha compiuto il superamento di questo contrasto, la sua trasformazione in comunione: l’ubbidienza di Gesù, il suo morire a se stesso, diviene il vero esodo, che libera l’uomo dal suo decadimento interiore conducendolo all’unità con l’amore di Dio.
Il crocifisso diviene così la vivente “icona dell’amore”; proprio nel crocifisso, nel suo volto scorticato e percosso, l’uomo diventa nuovamente trasparenza di Dio, l’immagine di Dio torna a rilucere. Così la luce dell’amore divino riposa proprio sulle persone sofferenti, nelle quali lo splendore della creazione si è esteriormente oscurato; perché esse in modo particolare sono simili al Cristo crocifisso, all’icona dell’amore, si sono accostate in una particolare comunanza a colui, che solo è la stessa immagine di Dio.

Possiamo estendere a loro la parola, che Tertulliano ha formulato in riferimento a Cristo: “Per misero che possa essere stato il suo corpo..., esso sarà sempre il mio Cristo...” (Adv. Marc. III,17,2). Per grande che sia la loro sofferenza, per quanto sfigurati e offuscati possano essere nella loro esistenza umana – essi saranno sempre i figli prediletti di nostro Signore, ne saranno sempre in modo particolare l’immagine. Fondandosi sulla tensione fra nascondimento e futura manifestazione dell’immagine di Dio possiamo del resto applicare alla nostra questione la parola della prima Lettera di Giovanni: “noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato” (3,2).
Noi amiamo in tutti gli esseri umani, ma soprattutto nei sofferenti, nei disabili mentali, ciò che essi saranno e ciò che essi in realtà già sono fin d’ora. Già fin d’ora essi sono figli di Dio – ad immagine di Cristo, anche se non è ancora manifesto ciò che essi diverranno. Cristo nella croce si è definitivamente assimilato ai più poveri, ai più indifesi, ai più sofferenti, ai più abbandonati, ai più disprezzati. E fra questi, vi sono coloro di cui il nostro colloquio oggi si occupa, coloro la cui anima razionale non arriva ad esprimersi perfettamente per mezzo di un cervello infermo o malato, come se, per una ragione o per un’altra, la materia resistesse ad essere assunta da parte dello spirito. Qui Gesù rivela l’essenziale dell’umanità, ciò che ne è il vero compimento, non l’intelligenza, né la bellezza, ancor meno la ricchezza o il piacere, ma la capacità di amare e di acconsentire amorosamente alla volontà del Padre, per sconcertante che esso sia.
Ma la passione di Gesù sfocia nella sua resurrezione. Il Cristo risuscitato è il punto culminante della storia, l’Adamo glorioso verso il quale tendeva già il primo Adamo, l’Adamo “terreno”. Così si manifesta il fine del progetto divino: ogni uomo è in cammino dal primo al secondo Adamo. Nessuno di noi è ancora pienamente se stesso. Ciascuno deve diventarlo, come il grano di frumento che deve morire per portare frutto, come il Cristo resuscitato è infinitamente fecondo perché si è infinitamente donato.
Una delle grandi gioie del nostro paradiso sarà senza dubbio scoprire le meraviglie che l’amore avrà operato in noi, e che l’amore avrà operato in ciascuno dei nostri fratelli e sorelle, e nei più colpiti, nei più sofferenti fra di essi, mentre noi non comprendevamo neppure come l’amore era possibile da parte loro, mentre il loro amore rimaneva nascosto nel mistero di Dio. Sì, una delle nostre gioie sarà di scoprire i nostri fratelli e sorelle in tutto lo splendore della loro umanità, in tutto il loro splendore di immagini di Dio.
La Chiesa crede, fin da oggi, a questo splendore futuro. Essa vuole essere attenta e sottolineare anche il minimo segno che già lo lasci intravvedere. Perché, nell’al di là, ciascuno di noi brillerà tanto più quanto più avrà imitato il Cristo, nel contesto e con le possibilità che gli saranno state date.
Ma mi sia permesso qui di rendere testimonianza all’amore della Chiesa per le persone mentalmente sofferenti. Sì, la Chiesa vi ama. Essa non ha verso di voi solo la “predilezione” naturale della madre per i più sofferenti dei suoi figli. Essa non resta ammirata solo davanti a ciò che voi sarete, ma a ciò che voi già siete: immagini di Cristo.
Immagini di Cristo da onorare, da rispettare, da aiutare nella misura del possibile, certamente, ma soprattutto, immagini di Cristo portatrici di un messaggio essenziale sulla verità dell’uomo. Un messaggio che tendiamo troppo a dimenticare: il nostro valore davanti a Dio non dipende né dall’intelligenza, né dalla stabilità del carattere, né dalla salute che ci permettono molteplici attività di generosità. Questi aspetti potrebbero sparire in ogni momento. Il nostro valore davanti a Dio dipende solamente dalla scelta che avremo fatto di amare il più possibile, di amare il più possibile nella verità.
Dire che Dio ci ha creati a sua immagine, significa dire che egli ha voluto che ciascuno di noi manifesti un aspetto del suo splendore infinito, che egli ha un progetto su ciascuno di noi, che ciascuno di noi è destinato a entrare, per un itinerario che gli è proprio, nell’eternità beata.

La dignità dell’uomo non è qualcosa che si impone ai nostri occhi, non è misurabile né qualificabile, essa sfugge ai parametri della ragione scientifica o tecnica; ma la nostra civiltà, il nostro umanesimo, non hanno fatto progressi se non nella misura in cui questa dignità è stata più universalmente e più pienamente riconosciuta a sempre più persone.

Ogni ritorno indietro in questo movimento di espansione, ogni ideologia o azione politica che estromettesse alcuni esseri umani dalla categoria di coloro che meritano rispetto, segnerebbero un ritorno verso la barbarie. E noi sappiamo che sfortunatamente la minaccia della nostra barbarie pende sempre sui nostri fratelli e sorelle che soffrono di una limitazione o di una malattia mentale. Uno dei nostri compiti di cristiani è di far riconoscere, rispettare e promuovere pienamente la loro umanità, la loro dignità e la loro vocazione di creature ad immagine e somiglianza di Dio.

Vorrei approfittare di questa occasione che mi è offerta per ringraziare tutti coloro, e sono qui numerosi, che con la riflessione o la ricerca, lo studio o le diverse cure, si impegnano a rendere sempre più riconoscibile questa immagine.

Sua Eminenza il Cardinale JOSEPH RATZINGER
Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede

[Testo distribuito dal Pontificio Consiglio per la Pastorale della Salute]

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