domenica 26 luglio 2009

Paolo riteneva che un un apostolo non dovesse preoccuparsi di avere l’opinione pubblica dalla sua parte. No, egli voleva scuotere le coscienze!


Cari amici, la nostra Gemma ci fa un enorme regalo, donandoci un brano straordinario di Joseph Ratzinger-Papa Benedetto XVI..
Raffaella

Il combattente e il sofferente

All’ingresso della basilica di San Pietro, nel secolo XIX papa Pio IX ha voluto che fossero poste due possenti figure degli apostoli Pietro e Paolo, ambedue facilmente riconoscibili dai loro attributi: le chiavi nella mano di Pietro, la spada nelle mani di Paolo.
Chi guardasse la possente figura dell’apostolo delle genti senza conoscere la storia del cristianesimo, potrebbe farsi l’idea che si tratti di un grande condottiero, di un guerriero, che ha fatto la storia con la spada e in tal modo ha assoggettato i popoli.
Sarebbe allora uno dei tanti che si sono procurati gloria e ricchezza a prezzo del sangue degli altri.
Il cristiano sa che la spada nelle mani di quest’uomo significa esattamente il contrario: essa fu lo strumento con cui egli venne messo a morte. In quanto cittadino romano egli non poteva essere crocifisso come Pietro; morì dunque di spada. Ma anche se questa era considerata una forma nobile di esecuzione, nella storia dell’umanità egli rientra tra le vittime, non tra gli oppressori.
Chi si addentra nelle lettere di Paolo per cercare in esse qualcosa che assomigli a un’autobiografia nascosta dell’Apostolo, riconoscerà subito che l’attributo della spada non si riferisce solo allo strumento del suo martiri, che dice qualcosa degli ultimi istanti della sua vita; la spada può essere intesa, a ragione, come attributo della sua vita: “Ho combattuto la buona battaglia”, dice al suo amato discepolo Timoteo volgendo lo sguardo al cammino della sua vita, quando sente che la sua morte è ormai prossima (2Tim 4,7). Proprio in forza di parole come queste, Paolo è stato volentieri descritto come un combattente, come un uomo d’azione, anzi, come un violento.
Uno sguardo superficiale della sua vita sembra dar ragione a questa lettura: in quattro lunghi viaggi ha percorso una parte considerevole del mondo allora conosciuto ed è divenuto davvero l’apostolo delle gent, che porta il Vangelo di Gesù Cristo “fino agli estremi confini della terra”. Con le sue lettere ha tenuto unite le comunità, ha stimolato la loro crescita e ha rafforzato la loro costanza. Con tutta la forza del suo vivo temperamento egli si confronta con gli avversari, che non scarseggiano mai. Usa tutti i mezzi a sua disposizione per corrispondere il più efficacemente possibile al “dovere” di annunciare, che egli sente gravare su di sé (1Cor 9,16). Per questo egli continua a essere presentato come il grande attivista, il patrono di coloro che vanno alla ricerca di nuove strategie passionali e missionarie.
Tutto questo non è falso, ma non è Paolo nella sua interezza; anzi, chi lo vede solo così, non coglie ciò che più specificamente caratterizza la sua figura.
Anzitutto si deve osservare che la battaglia di san Paolo non fu quella di un carrierista, di un uomo di potere, men che meno quella di un conquistatore e di un dominatore. La sua fu una battaglia nel senso che a questa parola attribuisce Teresa d’Avila.
L’affermazione che “Dio ama le anime intrepide”, ella la spiega così: “La prima cosa che il Signore opera nei suoi amici quando diventano deboli è infondere loro coraggio e togliere loro la paura della sofferenza”.
A questo proposito mi viene in mente un’osservazione di Theodor Haecker, certo piuttosto unilaterale e anche un po’ ingiusta, da lui annotata nei suoi diarii durante la guerra; essa può comunque aiutarci a capire di cosa stiamo parlando. La frase cui mi riferisco suona così: “ Talvolta mi pare che in Vaticano si è del tutto dimenticato che Pietro non fu solo vescovo di Roma…ma anche martire”.
La battaglia di san Paolo fu la battaglia di un martire, fin dall’inizio. Detto con più precisione: all’inizio del suo cammino era stato un persecutore e aveva usato violenza contro i cristiani.
Dal momento della sua conversione era passato dalla parte del Cristo crocifisso e aveva scelto lui stesso la via di Gesù Cristo. Non era un diplomatico; quando fece dei tentativi diplomatici, ebbe poco successo. Era un uomo che non aveva altra arma che il messaggio di Cristo e l’impegno della sua stessa vita per questo messaggio.
Già nella lettera ai Filippesi egli dice che la sua vita sarà versata in libagione come sacrificio (Fil 2,7); alla sera della sua vita, nelle ultime parole indirizzate a Timoteo (2Tm 4,6) questa stessa espressione torna ancora una volta. Paolo era un uomo disposto a lasciarsi ferire e proprio questa era la sua vera forza. Non ha protetto se stesso, non ha tentato di tenersi fuori dalle contrarietà e dalle circostanze spiacevoli, men che meno ha cercato di assicurarsi una vita tranquilla. Anzi, ha fatto proprio il contrario. Ma precisamente il fatto che egli si sia esposto in prima persona, che non si sia tutelato, che abbia posto se stesso in balia delle contrarietà e si sia lasciato consumare per il vangelo, lo ha reso credibile e ha edificato la
Chiesa:
Desidero più di tutto consumarmi e mi consumerò per le vostre anime”.

Queste parole, tratte dalla seconda lettera ai Corinzi (12,15), mettono in evidenza l’anima più profonda di quest’uomo. Paolo non pensava affatto che il compito prioritario della pastorale fosse evitare le difficoltà e riteneva che un apostolo non dovesse anzitutto preoccuparsi di avere l’opinione pubblica dalla sua parte. No, egli voleva scuotere, rompere il sonno delle coscienze, anche a costo della vita.

Dalle sue lettere sappiamo che egli fu tutt’altro che un abile parlatore.
Condivideva la mancanza di talento oratorio con Mosè e con Geremia, i quali affermavano davanti a Dio di essere del tutto inadatti alla missione a cui egli li chiamava e adducevano ambedue come scusa il fatto di non essere abili parlatori. “La sua presenza fisica è debole e la parola dimessa” (2 Cor 10,10), dicevano di lui i suoi avversari. Sull’inizio della sua missione in Galazia lui stesso racconta: “Sapete che ero ammalato e debole, la prima volta che vi annunciai il vangelo” (Gal 4,13). Paolo non ha operato grazie a una brillante retorica e per mezzo di raffinate strategie, ma impegnando se stesso in prima persona ed esponendosi per l’annuncio che portava. Anche oggi la Chiesa potrà convincere delle persone solo nella misura in cui coloro che annunciano in suo nome sono disposti a lasciarsi ferire. Dove manca la disponibilità a soffrire in prima persona , manca l’argomento decisivo della verità, da ci la Chiesa stessa dipende. La sua battaglia sarà sempre e solamente la battaglia di coloro che accettano di sacrificare se stessi: la battaglia dei martiri.
Alla spada nelle mani di san Paolo possiamo attribuire anche un altro significato, oltre a quello di strumento del suo martirio: nella Scrittura la spada è anche simbolo della parola di Dio, che “più efficace e più tagliente di una spada a doppio taglio…giudica sui sentimenti e i pensieri del cuore” (Eb 4,12). Questa spada ha condotto Paolo: con essa egli ha conquistato le persone.
“Spada”, in fondo, qui è semplicemente un’immagine della potenza della verità, che è di natura tutta propria. La verità può far male, può ferire – per questo è stata fatta la spada. E proprio perché la vita nella menzogna o anche solo nella scelta di ignorare la verità appare spesso più comoda rispetto all’esigenza del vero, che gli uomini si scandalizzano della verità, vogliono liquidarla, rimuoverla, spazzarla via dal loro cammino. Chi di noi potrebbe negare che talvolta la verità gli ha recato disturbo: la verità su se stessi, la verità su ciò che dobbiamo fare o non fare? Chi di noi può affermare di non aver mai tentato di mettere se stesso prima della verità o, quantomeno, di accomodare quest’ultima, almeno per renderla meno dolorosa?

Paolo era inquieto perché era un uomo della verità; chi si dedica alla verità, fino in fondo, e non vuole utilizzare nessun’altra arma, né prefiggersi alcun altro compito, non necessariamente sarà ucciso, ma giungerà comunque vicino al martirio: diventerà un sofferente. Annunciare la verità, senza diventare un fanatico o un calcolatore: questo è il grande compito.

Può darsi che la polemica abbia talvolta inasprito Paolo, al punto da farlo sembrare vicino al fanatismo, ma egli non è mai stato un fanatico, in nessun modo.

Testi colmi di benevolenza, come li leggiamo nelle sue lettere – i più belli li troviamo, forse, nella lettera ai Filippesi -, sono il vero tratto distintivo del suo carattere. Potè conservarsi libero dal fanatismo perché non parlava per se stesso, ma portava agli uomini il dono di un altro: la verità di Cristo, che è morto per questo e che è rimasto un uomo che ama fin dentro la morte. Anche su questo punto dobbiamo correggere un poco la nostra immagine di Paolo.
Abbiamo anche troppo in mente i testi più battaglieri di Paolo. Ma qui vale qualcosa di simile a quello che si dice di Mosè: vediamo Mosè come colui che facilmente si adira, come una personalità dura e inflessibile. Ma il libro dei Numeri dice di lui: Mosè era il più mite di tutti gli uomini (12,3; LXX). Chi legge Paolo nella sua interezza, scoprirà la mitezza di Paolo. Lo abbiamo già detto: il suo successo dipende dalla sua disponibilità a soffrire in prima persona. Ora dobbiamo aggiungere: la sofferenza e la verità vanno sempre insieme.

Paolo fu combattuto perché era un uomo della verità. Ma il fatto che ciò che resta delle sue parole e della sua vita sia cresciuto, dipende dal fatto che egli ha servito la verità e ha sofferto per essa. La sofferenza è necessaria per accreditare la verità, ma solo la verità dà alla sofferenza un significato.

All’ingresso della basilica di San Pietro stanno le figure dei due apostoli Pietro e Paolo. Anche sul portale maggiore della basilica di San Paolo fuori le Mura essi sono raffigurati insieme, con scene dalla vita e dal martirio di entrambi. Fin dall’inizio la tradizione cristiana ha considerato Pietro e Paolo inseparabili l’uno dall’altro: insieme, essi rappresentano tutto il vangelo. A Roma il legame tra di loro come fratelli nella fede ha assunto anche un altro significato, molto specifico. Dai cristiani di Roma essi furono visti come il contraltare della mitica coppia di fratelli a cui si faceva risalire la fondazione di Roma: Romolo e Remo. Si può inoltre stabilire uno strano parallelismo tra questi due uomini e la prima coppia fraterna della storia biblica: Caino e Abele; il primo diventa l’assassino del secondo. La parola “fraternità”, considerata solo nel suo versante umano, acquista così un sapore amaro.
Come essa venga intesa tra gli uomini, lo si vede proprio nel fatto che in tutte le religioni viene rappresentata da simili coppie fraterne.
Pietro e Paolo, per quanto umanamente così diversi l’uno dall’altro e benché il rapporto tra di loro non sia stato esente da conflitti, appaiono come i fondatori di una nuova città, come la concretizzazione di un modo nuovo e autentico di essere fratelli, reso possibile dal vangelo di Gesù Cristo. Non è la spada del conquistatore a salvare il mondo, ma solo la spada del sofferente. Solo la sequela di Cristo porta alla nuova fraternità, alla nuova città: ce lo dice la coppia di fratelli che ci parla dalle grandi basiliche di Roma.

Da Joseph Ratzinger, "Immagini di speranza: Le feste cristiane in compagnia del Papa", Edizioni San Paolo 2005