giovedì 25 giugno 2009

L’Europa nella crisi delle culture: l'ultima conferenza del cardinale Joseph Ratzinger (Subiaco, 1° aprile 2005)


DISCORSI, TESTI E OMELIE DEL TEOLOGO E DEL CARDINALE JOSEPH RATZINGER

Vedi anche:

Il filosofo Robert Spaemann rilancia la scommessa del papa: vivere come se Dio ci fosse (Magister)

L’Europa nella crisi delle culture

Conferenza tenuta la sera di venerdì 1 aprile 2005 a Subiaco, al Monastero di Santa Scolastica, in occasione della consegna all’autore del Premio San Benedetto “per la promozione della vita e della famiglia in Europa”. Il testo uscirà in un volume edito da Cantagalli

di Joseph Ratzinger

RIFLESSIONI SU CULTURE CHE OGGI SI CONTRAPPONGONO

Viviamo un momento di grandi pericoli e di grandi opportunità per l’uomo e per il mondo, un momento che è anche di grande responsabilità per tutti noi. Durante il secolo passato le possibilità dell’uomo e il suo dominio sulla materia sono cresciuti in misura davvero impensabile. Ma il suo poter disporre del mondo ha anche fatto sì che il suo potere di distruzione abbia raggiunto delle dimensioni che, a volte, ci fanno inorridire. A tale proposito viene spontaneo pensare alla minaccia del terrorismo, questa nuova guerra senza confini e senza fronti. Il timore che esso possa presto impossessarsi delle armi nucleari e biologiche non è infondato e ha fatto sì che, all’interno degli Stati di diritto, si sia dovuti ricorrere a sistemi di sicurezza simili a quelli che prima esistevano soltanto nelle dittature; ma rimane comunque la sensazione che tutte queste precauzioni in realtà non possano mai bastare, non essendo possibile né desiderabile un controllo globale. Meno visibili, ma non per questo meno inquietanti, sono le possibilità di automanipolazione che l’uomo ha acquisito. Egli ha scandagliato i recessi dell’essere, ha decifrato le componenti dell’essere umano, e ora è in grado, per così dire, di “costruire” da sé l’uomo, che così non viene più al mondo come dono del Creatore, ma come prodotto del nostro agire, prodotto che, pertanto, può anche essere selezionato secondo le esigenze da noi stessi fissate. Così, su quest’uomo non brilla più lo splendore del suo essere immagine di Dio, che è ciò che gli conferisce la sua dignità e la sua inviolabilità, ma soltanto il potere delle capacità umane. Egli non è più altro che immagine dell’uomo – di quale uomo? A questo si aggiungono i grandi problemi planetari: la disuguaglianza nella ripartizione dei beni della terra, la crescente povertà, anzi l’impoverimento, lo sfruttamento della terra e delle sue risorse, la fame, le malattie che minacciano tutto il mondo, lo scontro delle culture. Tutto ciò mostra che al crescere delle nostre possibilità non corrisponde un uguale sviluppo della nostra energia morale. La forza morale non è cresciuta assieme allo sviluppo della scienza, anzi, piuttosto è diminuita, perché la mentalità tecnica confina la morale nell’ambito soggettivo, mentre noi abbiamo bisogno proprio di una morale pubblica, una morale che sappia rispondere alle minacce che gravano sull’esistenza di tutti noi. Il vero, più grave pericolo di questo momento sta proprio in questo squilibrio tra possibilità tecniche ed energia morale. La sicurezza, di cui abbiamo bisogno come presupposto della nostra libertà e della nostra dignità, non può venire in ultima analisi da sistemi tecnici di controllo, ma può, appunto, scaturire soltanto dalla forza morale dell’uomo: laddove essa manca o non è sufficiente, il potere che l’uomo ha si trasformerà sempre di più in un potere di distruzione.

È vero che oggi esiste un nuovo moralismo le cui parole-chiave sono giustizia, pace, conservazione del creato, parole che richiamano dei valori morali essenziali di cui abbiamo davvero bisogno. Ma questo moralismo rimane vago e scivola così, quasi inevitabilmente, nella sfera politico-partitica. Esso è anzitutto una pretesa rivolta agli altri, e troppo poco un dovere personale della nostra vita quotidiana. Infatti, cosa significa giustizia? Chi lo definisce? Che cosa serve alla pace? Negli ultimi decenni abbiamo visto ampiamente nelle nostre strade e sulle nostre piazze come il pacifismo possa deviare verso un anarchismo distruttivo e verso il terrorismo. Il moralismo politico degli anni Settanta, le cui radici non sono affatto morte, fu un moralismo che riuscì ad affascinare anche dei giovani pieni di ideali. Ma era un moralismo con indirizzo sbagliato in quanto privo di serena razionalità, e perché, in ultima analisi, metteva l’utopia politica al di sopra della dignità del singolo uomo, mostrando persino di poter arrivare, in nome di grandi obbiettivi, a disprezzare l’uomo. Il moralismo politico, come l’abbiamo vissuto e come lo viviamo ancora, non solo non apre la strada a una rigenerazione, ma la blocca. Lo stesso vale, di conseguenza, anche per un cristianesimo e per una teologia che riducono il nocciolo del messaggio di Gesù, il “Regno di Dio”, ai “valori del Regno”, identificando questi valori con le grandi parole d’ordine del moralismo politico, e proclamandole, nello stesso tempo, come sintesi delle religioni. Dimenticandosi però, così, di Dio, nonostante sia proprio Lui il soggetto e la causa del Regno di Dio. Al suo posto rimangono grandi parole (e valori) che si prestano a qualsiasi tipo di abuso.

Questo breve sguardo sulla situazione del mondo ci porta a riflettere sull’odierna situazione del cristianesimo, e perciò anche sulle basi dell’Europa; quell’Europa che un tempo, possiamo dire, è stata il continente cristiano, ma che è stata anche il punto di partenza di quella nuova razionalità scientifica che ci ha regalato grandi possibilità e altrettanto grandi minacce. Il cristianesimo non è certo partito dall’Europa, e dunque non può essere neanche classificato come una religione europea, la religione dell’ambito culturale europeo. Ma proprio in Europa ha ricevuto la sua impronta culturale e intellettuale storicamente più efficace e resta pertanto intrecciato in modo speciale all’Europa. D’altra parte è anche vero che quest’Europa, sin dai tempi del Rinascimento, e in forma compiuta dai tempi dell’illuminismo, ha sviluppato proprio quella razionalità scientifica che non solo nell’epoca delle scoperte portò all’unità geografica del mondo, all’incontro dei continenti e delle culture, ma che adesso, molto più profondamente, grazie alla cultura tecnica resa possibile dalla scienza, impronta di sé veramente tutto il mondo, anzi, in un certo senso lo uniforma. E sulla scia di questa forma di razionalità, l’Europa ha sviluppato una cultura che, in un modo sconosciuto prima d’ora all’umanità, esclude Dio dalla coscienza pubblica, sia che venga negato del tutto, sia che la sua esistenza venga giudicata non dimostrabile, incerta, e dunque appartenente all’ambito delle scelte soggettive, un qualcosa comunque irrilevante per la vita pubblica. Questa razionalità puramente funzionale, per così dire, ha comportato uno sconvolgimento della coscienza morale altrettanto nuovo per le culture finora esistite, poiché sostiene che razionale è soltanto ciò che si può provare con degli esperimenti. Siccome la morale appartiene ad una sfera del tutto diversa, essa, come categoria a sé, sparisce e deve essere rintracciata in altro modo, in quanto bisogna ammettere che comunque la morale, in qualche modo, ci vuole. In un mondo basato sul calcolo, è il calcolo delle conseguenze che determina cosa bisogna considerare morale oppure no. E così la categoria di bene, come era stata evidenziata chiaramente da Kant, sparisce. Niente in sé è bene o male, tutto dipende dalle conseguenze che un’azione lascia prevedere. Se il cristianesimo, da una parte, ha trovato la sua forma più efficace in Europa, bisogna d’altra parte anche dire che in Europa si è sviluppata una cultura che costituisce la contraddizione in assoluto più radicale non solo del cristianesimo, ma delle tradizioni religiose e morali dell’umanità. Da qui si capisce che l’Europa sta sperimentando una vera e propria “prova di trazione”; da qui si capisce anche la radicalità delle tensioni alle quali il nostro continente deve far fronte. Ma qui emerge anche e soprattutto la responsabilità che noi europei dobbiamo assumerci in questo momento storico: nel dibattito intorno alla definizione dell’Europa, intorno alla sua nuova forma politica, non si gioca una qualche nostalgica battaglia “di retroguardia” della storia, ma piuttosto una grande responsabilità per l’umanità di oggi.

Diamo uno sguardo più accurato a questa contrapposizione tra le due culture che hanno contrassegnato l’Europa. Nel dibattito sul preambolo della Costituzione europea, tale contrapposizione si è evidenziata in due punti controversi: la questione del riferimento a Dio nella Costituzione e quella della menzione delle radici cristiane dell’Europa. Visto che nell’articolo 52 della Costituzione sono garantiti i diritti istituzionali delle Chiese, possiamo stare tranquilli, si dice. Ma ciò significa che esse, nella vita dell’Europa, trovano posto nell’ambito del compromesso politico, mentre, nell’ambito delle basi dell’Europa, l’impronta del loro contenuto non trova alcuno spazio. Le ragioni che si danno nel dibattito pubblico per questo netto “no” sono superficiali, ed è evidente che più che indicare la vera motivazione, la coprono. L’affermazione che la menzione delle radici cristiane dell’Europa ferisce i sentimenti dei molti non-cristiani che ci sono in Europa, è poco convincente, visto che si tratta prima di tutto di un fatto storico che nessuno può seriamente negare. Naturalmente questo cenno storico contiene anche un riferimento al presente, dal momento che, con la menzione delle radici, si indicano le fonti residue di orientamento morale, e cioè un fattore d’identità di questa formazione che è l’Europa. Chi verrebbe offeso? L’identità di chi viene minacciata? I musulmani, che a tale riguardo spesso e volentieri vengono tirati in ballo, non si sentono minacciati dalle nostre basi morali cristiane, ma dal cinismo di una cultura secolarizzata che nega le proprie basi. E anche i nostri concittadini ebrei non vengono offesi dal riferimento alle radici cristiane dell’Europa, in quanto queste radici risalgono fino al monte Sinai: portano l’impronta della voce che si fece sentire sul monte di Dio e ci uniscono nei grandi orientamenti fondamentali che il decalogo ha donato all’umanità. Lo stesso vale per il riferimento a Dio: non è la menzione di Dio che offende gli appartenenti ad altre religioni, ma piuttosto il tentativo di costruire la comunità umana assolutamente senza Dio.
Le motivazioni per questo duplice “no” sono più profonde di quel che lasciano pensare le motivazioni avanzate. Presuppongono l’idea che soltanto la cultura illuminista radicale, la quale ha raggiunto il suo pieno sviluppo nel nostro tempo, potrebbe essere costitutiva per l’identità europea. Accanto ad essa possono dunque coesistere differenti culture religiose con i loro rispettivi diritti, a condizione che e nella misura in cui rispettino i criteri della cultura illuminista e si subordinino ad essa.

Questa cultura illuminista sostanzialmente è definita dai diritti di libertà; essa parte dalla libertà come un valore fondamentale che misura tutto: la libertà della scelta religiosa, che include la neutralità religiosa dello Stato; la libertà di esprimere la propria opinione, a condizione che non metta in dubbio proprio questo canone; l’ordinamento democratico dello Stato, e cioè il controllo parlamentare sugli organismi statali; la libera formazione di partiti; l’indipendenza della magistratura; e infine la tutela dei diritti dell’uomo ed il divieto di discriminazioni. Qui il canone è ancora in via di formazione, visto che ci sono anche diritti dell’uomo contrastanti, come per esempio nel caso del contrasto tra la voglia di libertà della donna e il diritto alla vita del nascituro.

Il concetto di discriminazione viene sempre più allargato, e così il divieto di discriminazione può trasformarsi sempre di più in una limitazione della libertà di opinione e della libertà religiosa. Ben presto non si potrà più affermare che l’omosessualità, come insegna la Chiesa cattolica, costituisce un obiettivo disordine nello strutturarsi dell’esistenza umana. Ed il fatto che la Chiesa è convinta di non avere il diritto di dare l’ordinazione sacerdotale alle donne viene considerato, da alcuni, fin d’ora inconciliabile con lo spirito della Costituzione europea.

È evidente che questo canone della cultura illuminista, tutt’altro che definitivo, contiene valori importanti dei quali noi, proprio come cristiani, non vogliamo e non possiamo fare a meno; ma è altrettanto evidente che la concezione mal definita o non definita affatto di libertà, che sta alla base di questa cultura, inevitabilmente comporta contraddizioni; ed è evidente che proprio per via del suo uso (un uso che sembra radicale) comporta limitazioni della libertà che una generazione fa non riuscivamo neanche ad immaginarci. Una confusa ideologia della libertà conduce ad un dogmatismo che si sta rivelando sempre più ostile verso la libertà.

Dovremo senz’altro tornare ancora sulla questione delle contraddizioni interne alla forma attuale della cultura illuminista. Ma prima dobbiamo finire di descriverla. Fa parte della sua natura, in quanto cultura di una ragione che ha finalmente completa coscienza di se stessa, vantare una pretesa universale e concepirsi come compiuta in sé stessa, non bisognosa di alcun completamento attraverso altri fattori culturali. Entrambe queste caratteristiche si vedono chiaramente quando si pone la questione su chi possa diventare membro della Comunità europea, e soprattutto nel dibattito circa l’ingresso della Turchia in questa Comunità. Si tratta di uno Stato, o forse meglio, di un ambito culturale, che non ha radici cristiane, ma che è stato influenzato dalla cultura islamica. Ataturk ha poi cercato di trasformare la Turchia in uno Stato laicista, tentando di impiantare il laicismo maturato nel mondo cristiano dell’Europa su un terreno musulmano. Ci si può chiedere se ciò sia possibile: secondo la tesi della cultura illuminista e laicista dell’Europa, soltanto le norme e i contenuti della stessa cultura illuminista potranno determinare l’identità dell’Europa e, di conseguenza, ogni Stato che fa suoi questi criteri, potrà appartenere all’Europa. Non importa, alla fine, su quale intreccio di radici questa cultura della libertà e della democrazia viene impiantata. È proprio per questo, si afferma, che le radici non possono entrare nella definizione dei fondamenti dell’Europa, trattandosi di radici morte che non fanno parte dell’identità attuale. Di conseguenza, questa nuova identità, determinata esclusivamente dalla cultura illuminista, comporta anche che Dio non c’entri niente con la vita pubblica e con le basi dello Stato.
Così tutto diventa logico, e anche plausibile in qualche modo. Infatti, che cosa potremmo augurarci di più bello se non che dappertutto vengano rispettati la democrazia e i diritti umani? Ma qui si impone comunque la domanda se questa cultura illuminista laicista sia davvero la cultura, scoperta come finalmente universale, di una ragione comune a tutti gli uomini; cultura che dovrebbe avere accesso dappertutto, seppure su di un humus storicamente e culturalmente differenziato. E ci si chiede anche se è davvero compiuta in sé stessa, tanto da non avere bisogno di alcuna radice al di fuori di sé.

SIGNIFICATO E LIMITI DELLA ATTUALE CULTURA RAZIONALISTA

Dobbiamo ora affrontare queste ultime due domande. Alla prima, e cioè alla domanda se si sia raggiunta la filosofia universalmente valida e finalmente diventata del tutto scientifica, nella quale si esprimerebbe la ragione comune a tutti gli uomini, bisogna rispondere che indubbiamente si è arrivati a delle acquisizioni importanti che possono pretendere una validità generale: l’acquisizione che la religione non può essere imposta dallo Stato, ma che può essere accolta soltanto nella libertà; il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo uguali per tutti; la separazione dei poteri e il controllo del potere. Non si può pensare, comunque, che questi valori fondamentali, riconosciuti da noi come generalmente validi, possano essere realizzati nello stesso modo in ogni contesto storico. Non in tutte le società ci sono i presupposti sociologici per una democrazia basata su partiti, come si dà in Occidente; così, la completa neutralità religiosa dello Stato, nella maggior parte dei contesti storici, è da considerarsi un’illusione. E con ciò veniamo ai problemi sollevati dalla seconda domanda. Ma chiariamo prima la questione se le moderne filosofie illuministe, complessivamente considerate, si possano ritenere l’ultima parola della ragione comune a tutti gli uomini. Queste filosofie sono caratterizzate dal fatto che sono positivistiche, e perciò antimetafisiche, tanto che, alla fine, Dio non può avere in esse alcun posto. Esse sono basate su una autolimitazione della ragione positiva, che è adeguata nell’ambito tecnico, ma che, laddove viene generalizzata, comporta invece una mutilazione dell’uomo. Ne consegue che l’uomo non ammette più alcuna istanza morale al di fuori dei suoi calcoli e, come abbiamo visto, anche che il concetto di libertà, che a tutta prima potrebbe sembrare espandersi in modo illimitato, alla fine porta all’autodistruzione della libertà. È vero che le filosofie positivistiche contengono importanti elementi di verità. Questi sono però basati su un’autolimitazione della ragione tipica di una determinata situazione culturale – quella dell’Occidente moderno –, non potendo di certo essere come tali l’ultima parola della ragione. Nonostante sembrino totalmente razionali, non sono la voce della ragione stessa, ma sono anch’esse vincolate culturalmente, vincolate cioè alla situazione dell’Occidente di oggi. Perciò non sono affatto quella filosofia che un giorno dovrebbe essere valida in tutto il mondo. Ma soprattutto bisogna dire che questa filosofia illuminista e la sua rispettiva cultura sono incomplete. Essa taglia coscientemente le proprie radici storiche privandosi delle forze sorgive dalle quali essa stessa è scaturita, quella memoria fondamentale dell’umanità, per così dire, senza la quale la ragione perde l’orientamento. Infatti adesso vale il principio che la capacità dell’uomo sia la misura del suo agire.

Ciò che si sa fare, si può anche fare. Un saper fare separato dal poter fare non esiste più, perché sarebbe contro la libertà, che è il valore supremo in assoluto. Ma l’uomo sa fare tanto, e sa fare sempre di più; e se questo saper fare non trova la sua misura in una norma morale, diventa, come possiamo già vedere, potere di distruzione. L’uomo sa clonare uomini, e perciò lo fa. L’uomo sa usare uomini come “magazzino” di organi per altri uomini, e perciò lo fa; lo fa perché sembrerebbe essere questa una esigenza della sua libertà.

L’uomo sa costruire bombe atomiche, e perciò le fa, essendo, in linea di principio, anche disposto ad usarle. Anche il terrorismo, alla fine, si basa su questa modalità di “auto-autorizzazione” dell’uomo, e non sugli insegnamenti del Corano. Il radicale distacco della filosofia illuminista dalle sue radici diventa, in ultima analisi, un fare a meno dell’uomo. L’uomo, in fondo, non ha alcuna libertà, ci dicono i portavoce delle scienze naturali, in totale contraddizione col punto di partenza di tutta la questione. Egli non deve credere di essere qualcos’altro rispetto a tutti gli altri esseri viventi, e perciò dovrebbe anche essere trattato come loro, ci dicono persino i portavoce più avanzati di una filosofia nettamente separata dalle radici della memoria storica dell’umanità.
Ci eravamo posti due domande: se la filosofia razionalista (positivistica) sia strettamente razionale, e di conseguenza universalmente valida, e se sia completa. Basta a se stessa? Può, o addirittura deve, relegare le sue radici storiche nell’ambito del puro passato, e quindi nell’ambito di ciò che può essere valido soltanto soggettivamente? Dobbiamo rispondere a tutte due le domande con un netto “no”. Questa filosofia non esprime la compiuta ragione dell’uomo, ma soltanto una parte di essa, e per via di questa mutilazione della ragione non la si può considerare affatto razionale. Per questo è anche incompleta, e può guarire soltanto ristabilendo di nuovo il contatto con le sue radici. Un albero senza radici si secca…

Affermando questo non si nega tutto ciò che questa filosofia dice di positivo e importante, ma si afferma piuttosto il suo bisogno di compiutezza, la sua profonda incompiutezza. E così ci troviamo di nuovo a parlare dei due punti controversi del preambolo della Costituzione europea. L’accantonamento delle radici cristiane non si rivela espressione di una superiore tolleranza che rispetta tutte le culture allo stesso modo, non volendo privilegiarne alcuna, bensì come l’assolutizzazione di un pensare e di un vivere che si contrappongono radicalmente, fra l’altro, alle altre culture storiche dell’umanità. La vera contrapposizione che caratterizza il mondo di oggi non è quella tra diverse culture religiose, ma quella tra la radicale emancipazione dell’uomo da Dio, dalle radici della vita, da una parte, e le grandi culture religiose dall’altra. Se si arriverà ad uno scontro delle culture, non sarà per lo scontro delle grandi religioni – da sempre in lotta le une contro le altre ma che, alla fine, hanno anche sempre saputo vivere le une con le altre –, ma sarà per lo scontro tra questa radicale emancipazione dell’uomo e le grandi culture storiche. Così, anche il rifiuto del riferimento a Dio, non è espressione di una tolleranza che vuole proteggere le religioni non teistiche e la dignità degli atei e degli agnostici, ma piuttosto espressione di una coscienza che vorrebbe vedere Dio cancellato definitivamente dalla vita pubblica dell’umanità e accantonato nell’ambito soggettivo di residue culture del passato. Il relativismo, che costituisce il punto di partenza di tutto questo, diventa così un dogmatismo che si crede in possesso della definitiva conoscenza della ragione, ed in diritto di considerare tutto il resto soltanto come uno stadio dell’umanità in fondo superato e che può essere adeguatamente relativizzato. In realtà ciò significa che abbiamo bisogno di radici per sopravvivere e che non dobbiamo perdere Dio di vista, se vogliamo che la dignità umana non sparisca.

IL SIGNIFICATO PERMANENTE DELLA FEDE CRISTIANA

Questo è un semplice rifiuto dell’illuminismo e della modernità? Assolutamente no. Il cristianesimo, fin dal principio, ha compreso se stesso come la religione del logos, come la religione secondo ragione. Non ha individuato i suoi precursori in primo luogo nelle altre religioni, ma in quell’illuminismo filosofico che ha sgombrato la strada dalle tradizioni per volgersi alla ricerca della verità e verso il bene, verso l’unico Dio che sta al di sopra di tutti gli dèi. In quanto religione dei perseguitati, in quanto religione universale, al di là dei diversi Stati e popoli, ha negato allo Stato il diritto di considerare la religione come una parte dell’ordinamento statale, postulando così la libertà della fede. Ha sempre definito gli uomini, tutti gli uomini senza distinzione, creature di Dio e immagine di Dio, proclamandone in termini di principio, seppure nei limiti imprescindibili degli ordinamenti sociali, la stessa dignità. In questo senso l’illuminismo è di origine cristiana ed è nato non a caso proprio ed esclusivamente nell’ambito della fede cristiana. Laddove il cristianesimo, contro la sua natura, era purtroppo diventato tradizione e religione di Stato.

Nonostante la filosofia, in quanto ricerca di razionalità - anche della nostra fede - sia sempre stata appannaggio del cristianesimo, la voce della ragione era stata troppo addomesticata. É stato ed è merito dell’illuminismo aver riproposto questi valori originali del cristianesimo e aver ridato alla ragione la sua propria voce. Il Concilio Vaticano II, nella costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, ha nuovamente evidenziato questa profonda corrispondenza tra cristianesimo ed illuminismo, cercando di arrivare ad una vera conciliazione tra Chiesa e modernità, che è il grande patrimonio da tutelare da entrambe le parti.

Con tutto ciò, bisogna che tutte e due le parti riflettano su se stesse e siano pronte a correggersi. Il cristianesimo deve ricordarsi sempre che è la religione del logos. Esso è fede nel Creator spiritus, nello Spirito creatore, dal quale proviene tutto il reale. Proprio questa dovrebbe essere oggi la sua forza filosofica, in quanto il problema è se il mondo provenga dall’irrazionale, e la ragione non sia dunque altro che un “sottoprodotto”, magari pure dannoso, del suo sviluppo, o se il mondo provenga dalla ragione, ed essa sia di conseguenza il suo criterio e la sua meta. La fede cristiana propende per questa seconda tesi, avendo così, dal punto di vista puramente filosofico, davvero delle buone carte da giocare, nonostante sia la prima tesi ad essere considerata oggi da tanti la sola “razionale” e moderna. Ma una ragione scaturita dall’irrazionale, e che è, alla fin fine, essa stessa irrazionale, non costituisce una soluzione ai nostri problemi. Soltanto la ragione creatrice, e che nel Dio crocifisso si è manifestata come amore, può veramente mostrarci la via.
Nel dialogo, così necessario, tra laici e cattolici, noi cristiani dobbiamo stare molto attenti a restare fedeli a questa linea di fondo: a vivere una fede che proviene dal logos, dalla ragione creatrice, e che è perciò anche aperta a tutto ciò che è veramente razionale. Ma a questo punto vorrei, nella mia qualità di credente, fare una proposta ai laici.

Nell’epoca dell’illuminismo si è tentato di intendere e definire le norme morali essenziali dicendo che esse sarebbero valide etsi Deus non daretur, anche nel caso che Dio non esistesse. Nella contrapposizione delle confessioni e nella crisi incombente dell’immagine di Dio, si tentò di tenere i valori essenziali della morale fuori dalle contraddizioni e di cercare per loro un’evidenza che li rendesse indipendenti dalle molteplici divisioni e incertezze delle varie filosofie e confessioni.

Così si vollero assicurare le basi della convivenza e, più in generale, le basi dell’umanità. A quell’epoca sembrò possibile, in quanto le grandi convinzioni di fondo create dal cristianesimo in gran parte resistevano e sembravano innegabili. Ma non è più così. La ricerca di una tale rassicurante certezza, che potesse rimanere incontestata al di là di tutte le differenze, è fallita. Neppure lo sforzo, davvero grandioso, di Kant è stato in grado di creare la necessaria certezza condivisa. Kant aveva negato che Dio possa essere conoscibile nell’ambito della pura ragione, ma nello stesso tempo aveva rappresentato Dio, la libertà e l’immortalità come postulati della ragione pratica, senza la quale, coerentemente, per lui non era possibile alcun agire morale. La situazione odierna del mondo non ci fa forse pensare di nuovo che egli possa aver ragione? Vorrei dirlo con altre parole: il tentativo, portato all’estremo, di plasmare le cose umane facendo completamente a meno di Dio ci conduce sempre di più sull’orlo dell’abisso, verso l’accantonamento totale dell’uomo. Dovremmo, allora, capovolgere l’assioma degli illuministi e dire: anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio dovrebbe comunque cercare di vivere e indirizzare la sua vita veluti si Deus daretur, come se Dio ci fosse. Questo è il consiglio che già Pascal dava agli amici non credenti; è il consiglio che vorremmo dare anche oggi ai nostri amici che non credono. Così nessuno viene limitato nella sua libertà, ma tutte le nostre cose trovano un sostegno e un criterio di cui hanno urgentemente bisogno.

Ciò di cui abbiamo soprattutto bisogno in questo momento della storia sono uomini che, attraverso una fede illuminata e vissuta, rendano Dio credibile in questo mondo. La testimonianza negativa di cristiani che parlavano di Dio e vivevano contro di Lui, ha oscurato l’immagine di Dio e ha aperto la porta all’incredulità.
Abbiamo bisogno di uomini che tengano lo sguardo dritto verso Dio, imparando da lì la vera umanità. Abbiamo bisogno di uomini il cui intelletto sia illuminato dalla luce di Dio e a cui Dio apra il cuore, in modo che il loro intelletto possa parlare all’intelletto degli altri e il loro cuore possa aprire il cuore degli altri. Soltanto attraverso uomini che sono toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini. Abbiamo bisogno di uomini come Benedetto da Norcia il quale, in un tempo di dissipazione e di decadenza, si sprofondò nella solitudine più estrema, riuscendo, dopo tutte le purificazioni che dovette subire, a risalire alla luce, a ritornare e a fondare a Montecassino, la città sul monte che, con tante rovine, mise insieme le forze dalle quali si formò un mondo nuovo. Così Benedetto, come Abramo, diventò padre di molti popoli. Le raccomandazioni ai suoi monaci poste alla fine della sua regola, sono indicazioni che mostrano anche a noi la via che conduce in alto, fuori dalle crisi e dalle macerie. “Come c’è uno zelo amaro che allontana da Dio e conduce all’inferno, così c’è uno zelo buono che allontana dai vizi e conduce a Dio e alla vita eterna. È a questo zelo che i monaci devono esercitarsi con ardentissimo amore: si prevengano l’un l’altro nel rendersi onore, sopportino con somma pazienza a vicenda le loro infermità fisiche e morali… Si vogliano bene l’un l’altro con affetto fraterno… Temano Dio nell’amore… Nulla assolutamente antepongano a Cristo il quale ci potrà condurre tutti alla vita eterna” (capitolo 72).

© Copyright 2005 - Libreria Editrice Vaticana