martedì 4 agosto 2009

La politica non si desume dalla fede, ma dalla ragione, e la distinzione tra la sfera della politica e la sfera della fede appartiene al Cristianesimo


“La teologizzazione della politica diventerebbe ideologizzazione della fede”

Joseph Ratzinger alla Pontificia Università della Santa Croce (aprile 2003)

ROMA, martedì, 24 maggio 2005 (ZENIT.org).

Pubblichiamo di seguito l’intervento del Cardinale prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, Joseph Ratzinger, al convegno “L’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica”, promosso dalla Pontificia Università della Santa Croce, a Roma, il 9 aprile 2003 e apparso sulla rivista “30Giorni”.

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Resisto alla tentazione grande di rispondere alle interessanti osservazioni e riflessioni del senatore Francesco Cossiga, e mi limito ad introdurre la Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, per indicare qual è la posizione di fondo di questo documento che immediatamente parla ai cattolici – perché solo questi hanno una relazione di fede con la Santa Sede – ma che vuol far pensare naturalmente tutti.

Secondo Paul Ricoeur far pensare è la cosa più nobile che la filosofia può ottenere, e quindi vogliamo far pensare senza imporre qualcosa. In ogni caso la posizione descritta nel nostro documento si potrebbe riassumere così: per noi, e cioè per la convinzione della Chiesa cattolica di tutti i tempi, la politica appartiene alla sfera della ragione, la ragione comune a tutti, la ragione naturale. La politica quindi è un lavoro che implica l’uso della ragione e va governata dalle virtù naturali, così ben descritte dall’antichità greca, le quattro virtù cardinali: la prudenza, la temperanza, la giustizia, la fortezza.

La convinzione che il campo della politica è il campo della ragione comune, che deve svolgersi nella reciproca comprensione e che deve comportare anche l’illuminazione della ragione, implica l’esclusione di due posizioni.
Esclude innanzitutto la teologizzazione della politica, che diventerebbe ideologizzazione della fede.
La politica infatti non si desume dalla fede, ma dalla ragione, e la distinzione tra la sfera della politica e la sfera della fede appartiene proprio alla tradizione centrale del cristianesimo: la troviamo nella parola di Cristo “Date all’imperatore quanto è dell’imperatore, a Dio quanto è di Dio”.
In questo senso lo Stato è uno Stato laico, profano, nel senso positivo. Mi vengono in mente per esempio le belle parole di san Bernardo di Chiaravalle al Papa di quel tempo: “Non pensare che tu sia il successore di Costantino; non sei il successore di Costantino, ma di Pietro. Il tuo libro fondamentale non è il Codice di Giustiniano, ma è la Sacra Scrittura”.
Questa, diciamo, giusta profanità, o anche laicità della politica, che esclude quindi l’idea di una teocrazia, di una politica determinata dal dettato della fede, esclude, d’altra parte, anche un positivismo ed empirismo che è una mutilazione della ragione. Secondo questa posizione la ragione sarebbe capace di percepire solo le cose materiali, empiriche, verificabili o falsificabili con metodi empirici. Quindi la ragione sarebbe cieca per quanto riguarda i valori morali e non potrebbe giudicarli, perché rientrerebbero nella sfera della soggettività, e non in quella dell’oggettività di una ragione limitata al verificabile, all’empirico, e positivista.
Una tale mutilazione della ragione che si limita al constatabile, all’empirico, al verificabile e al falsificabile secondo metodi materiali, distrugge la politica e, come aveva detto il senatore Cossiga, la riduce ad un’azione puramente tecnica, che dovrebbe seguire semplicemente le correnti più forti del momento, sottomettendosi quindi al transitorio ed anche ad un dettato irrazionale. E questo è l’altro impegno del nostro documento: mentre da un lato escludiamo una concezione teocratica ed insistiamo sulla razionalità della politica, dall’altro escludiamo anche un positivismo per cui la ragione sarebbe cieca per i valori morali, e siamo convinti che la ragione ha la capacità di conoscere i grandi imperativi morali, i grandi valori che devono determinare tutte le decisioni concrete.
E in questo senso mi sembra che subentri anche un certo legame tra fede e politica: la fede cioè può illuminare la ragione, può sanare, guarire una ragione ammalata. Non nel senso che questo influsso della fede trasferisce il campo della politica dalla ragione alla fede, ma nel senso che restituisce la ragione a se stessa, aiuta la ragione ad essere se stessa, senza alienarla.
Le indicazioni che appaiono nella nostra Nota ai politici cattolici, riguardo ai valori che sono da difendere anche contro maggioranze di un momento, non vogliono essere una intromissione nella politica da parte della gerarchia. Ma vogliono essere un necessario aiuto alla ragione in modo che soprattutto i politici credenti possano nella discussione politica aiutare ad una evidenza comune e così ad una presenza reale e concreta dei valori che devono governare ognuno nella politica. Grazie.

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