8 mesi fa
sabato 4 luglio 2009
Relativismo, etica, dialogo interreligioso, interpretazione del Concilio in un saggio "profetico" del cardinale Ratzinger
Da Joseph Ratzinger "Introduzione al Cristianesimo", Queriniana, 2000
Pubblichiamo il saggio introduttivo all'edizione 2000 di Introduzione al Cristianesimo.
Vi consiglio la lettura attenta di questo testo profetico che racchiude le linee guida del Pontificato di Benedetto XVI. Si tratta di una visione profetica del nostro tempo.
Saggio introduttivo alla nuova edizione 2000
«Introduzione al Cristianesimo, ieri, oggi, domani»
Sono passati più di trent'anni da quando è stata scritta quest'opera; in questo lasso di tempo la storia mondiale è progredita a passo sostenuto. A ben guardare, due anni sembrano aver segnato gli ultimi decenni del secolo appena trascorso: il 1968 e il 1989.
Il 1968 è legato all’emergere di una nuova generazione, che non solo giudicò inadeguata, piena di ingiustizia, piena di egoismo e di brama di possesso, l’opera di ricostruzione del dopoguerra, ma che guardò all’intero svolgimento della storia, a partire dall’epoca del trionfo del cristianesimo, come a un errore e a un insuccesso. Desiderosi di migliorare la storia, di creare un mondo di libertà, di uguaglianza e di giustizia, questi giovani si convinsero di aver trovato la strada migliore nella grande corrente del pensiero marxista. L’anno 1989 segnò il sorprendente crollo dei regimi socialisti in Europa, che lasciarono dietro di sé un triste strascico di terre distrutte e di anime distrutte. E, tuttavia, chi pensava che l’ora del messaggio cristiano sarebbe nuovamente scoccata si è illuso: sebbene il numero dei cristiani credenti nel mondo non sia modesto, in questo momento storico il cristianesimo non è riuscito a porsi distintamente come un'alternativa epocale.
La "dottrina di salvezza" marxista, in sostanza, era nata, nelle sue numerose versioni variamente strumentate, come unica visione del mondo scientifica corredata di motivazione etica e adatta ad accompagnare l’umanità nel futuro. Di qui il suo difficile congedo, anche dopo il trauma del 1989. Basti pensare a quanto contenuta è stata la discussione sugli orrori dei gulag comunisti, a quanto inascoltata è rimasta la voce di Solženicyn: di tutto questo non si parla. A imporre il silenzio è una sorta di pudore. Persino al sanguinario regime di Pol Pot si accenna soltanto occasionalmente, en passant. Ma è rimasto il disinganno, accanto a una profonda confusione. Nessuno oggi crede più alle grandi promesse morali. E proprio in questi termini era stato inteso il marxismo: una corrente che auspicava giustizia per tutti, l'avvento della pace, l’abolizione degli ingiustificati rapporti di predominio dell’uomo sull’uomo e via dicendo. Per questi nobili scopi si pensò di dover rinunciare ai principi etici e di poter utilizzare il terrore come strumento del bene. Da quando, anche solo per un momento, sono affiorate in superficie, visibili a tutti, le rovine dell’umanità prodotte da quest’idea, la gente preferisce rifugiarsi nella pragmatica o professare pubblicamente il dispregio per l’etica. Un tragico esempio è quello della Colombia, dove all’insegna del marxismo è stata intrapresa in passato una lotta per la liberazione dei piccoli agricoltori, soffocati dai grandi capitalisti. Al suo posto oggi è rimasta una repubblica di ribelli sottratti al potere statale, che vive apertamente del traffico illecito di droga e non cerca per questo giustificazioni morali, soprattutto perché, soddisfacendo la domanda dei paesi ricchi, riesce a sfamare un popolo che altrimenti faticherebbe a trovare un suo posto nell’ordine economico mondiale.
In situazioni confuse come questa non è forse compito del cristianesimo tentare sul serio di ritrovare la propria voce per ‘introdurre’ il nuovo millennio al suo messaggio, per proporlo come segnavia, comprensibile e universale, del futuro?
Dov’è stata, in tutti questi anni, la voce della fede cristiana? Il 1967, anno della nascita di quest’opera, ribolliva ancora dei fermenti del primo periodo post-conciliare. Il concilio Vaticano II si era proposto di rinnovare il ruolo del cristianesimo come motore della storia.
Nel XIX secolo, infatti, si era diffusa l’opinione che la religione appartenesse alla sfera soggettiva e privata, e che a questi ambiti dovesse limitare la propria influenza. Proprio perché relegata alla sfera soggettiva, la religione non poteva porsi come forza determinante per il grande corso della storia e per le decisioni da assumere in essa. Terminati i lavori del concilio, quindi, doveva essere di nuovo chiaro che la fede dei cristiani abbraccia l’intera esistenza, è un punto cardine della storia e del tempo e non è destinata a limitare la propria sfera di influenza alla sola soggettività. Il cristianesimo tentò – perlomeno nell’ottica della chiesa cattolica – di uscire dal ghetto in cui si trovava recluso dal XIX secolo e di tornare a coinvolgersi pienamente nel mondo. Parlare in questa sede dei dissidi e dei contrasti interni alla chiesa derivanti dall’interpretazione e dall’adozione del concilio sarebbe superfluo. Nella determinazione del ruolo del cristianesimo nella storia ha influito soprattutto l’idea di un nuovo rapporto tra chiesa e mondo.
Se negli anni Trenta Romano Guardini aveva coniato (giustamente) l’espressione «distinzione di ciò che è cristiano» (Unterscheidung des Christlichen), oggi tale distinzione sembrerebbe aver perso la sua importanza in favore, piuttosto, del superamento delle distinzioni, dell’avvicinarsi al mondo, del coinvolgersi nel mondo. Quanto rapidamente queste idee potessero uscire dalla cerchia dei discorsi ecclesiastici accademici e acquisire un taglio più pratico cominciò a essere evidente già nel 1968, all’epoca delle barricate parigine, quando si celebrava un’eucaristia della rivoluzione e, con essa, si sperimentava un nuovo connubio tra chiesa e mondo all’insegna della rivoluzione, in attesa di tempi migliori. La partecipazione in prima linea di comunità studentesche cattoliche ed evangeliche ai movimenti rivoluzionari nelle università europee ed extraeuropee non fece che confermare tale tendenza.
Il bagliore di questa nuova conversione di idee in prassi, di questa nuova fusione di impulso cristiano e di azione politica a livello mondiale fu particolarmente vivido in America Latina. Per oltre un decennio la teologia della liberazione sembrò indicare alla fede la nuova direzione da prendere per tornare ad essere incisiva nel mondo, in quanto al mondo nuovamente congiunta grazie alle nuove conoscenze e alle nuove direttive dell’epoca. Che i paesi latinoamericani fossero spaventosamente contrassegnati da repressione, da una dominazione iniqua, dalla concentrazione della proprietà e del potere nelle mani di pochi e dallo sfruttamento dei poveri è un fatto indiscusso, tanto indiscusso da ingenerare un bisogno di intervento. E, poiché questi paesi erano nella maggior parte cattolici, non poteva esserci dubbio circa le responsabilità della chiesa e la necessità da parte della fede di affermarsi come strumento di giustizia. Ma in che modo? Sembrava, a quell’epoca, che l’unica strada percorribile fosse il marxismo. Sembrava che Marx avesse assunto il ruolo che nel XIII secolo aveva ricoperto il pensiero aristotelico, una filosofia precristiana (ossia ‘pagana’) da battezzare per riavvicinare l’una all’altra fede e ragione e per porle in un rapporto corretto. Chi, tuttavia, accoglieva Marx (o le varianti del pensiero neomarxista) come rappresentante della ragione universale non aderiva semplicemente a una filosofia, a una visione dell’origine e del senso dell’esistenza, bensì e soprattutto a una prassi. Perché questa filosofia è sostanzialmente una ‘prassi’, che crea innanzitutto ‘verità’, non la presuppone.
Chi fa di Marx un filosofo della teologia accetta anche il primato della politica e dell’economia, elevandole al ruolo di forze effettive di salvezza (o di non-salvezza, se male utilizzate): in quest’ottica il riscatto dell’uomo avviene per il tramite della politica e dell’economia, in seno alle quali prende corpo il futuro. Il primato di prassi e politica significava, innanzitutto, l’impossibilità di includere Dio nella categoria del ‘pratico’: la ‘realtà’ che bisognava riconoscere era soltanto quella materiale dell’accadere storico, che era necessario penetrare e indirizzare verso il giusto obiettivo, trasformandolo con gli strumenti appositamente creati allo scopo, senza escludere, al bisogno, la violenza. In quest’ottica diventava necessario accantonare il discorso di Dio, estraneo all’ambito del pratico e alla sfera della realtà, per avere la libertà di realizzare gli obiettivi più importanti. Rimaneva l’immagine di Gesù, che ormai, non più colto come il Cristo, veniva considerato come l’incarnazione di tutti i sofferenti e gli oppressi, un loro portavoce che chiamava alla rivoluzione e a grandi cambiamenti. La novità, nel complesso, era che il progetto di riforma del mondo, che in Marx è pensato in senso non soltanto ateistico, ma anche antireligioso, si riempiva ora di entusiasmo religioso e poggiava su fondamenti religiosi: una Bibbia (soprattutto l’Antico Testamento) riletta in una nuova chiave e una liturgia celebrata come pre-compimento simbolico della rivoluzione e come preparazione alla stessa.
Bisogna riconoscerlo: il cristianesimo, con questa curiosa sintesi, riapprodava nel mondo, proponendosi come messaggio ‘epocale’. Non fa meraviglia che gli stati socialisti simpatizzassero per questo movimento.
Più sorprendente, al contrario, è il fatto che anche nei paesi cosiddetti ‘capitalisti’ l’opinione pubblica mostrasse un debole per la teologia della liberazione, che dai suoi oppositori era invece additata come un peccato contro il genere umano e la natura umana; in realtà, ovviamente, nessuno auspicava di vedere applicate le indicazioni pratiche di questa teologia, poiché un ordine sociale giusto sembrava già essere stato raggiunto. Non si può negare, tuttavia, che nelle varie teologie della liberazione vi fossero anche molte idee veramente degne di considerazione. Tutti questi progetti, però, dovevano rinunciare a porsi come forma epocale di sintesi di cristianesimo e mondo nel momento in cui la fede cedeva alla politica il ruolo di forza salvifica. È vero che l’uomo, come dice Aristotele, è un «essere politico», ma è altrettanto certo che l’uomo non può essere ridotto alla politica e all’economia. A mio avviso, il problema reale e più profondo delle teologie della liberazione è la perdita effettiva dell’idea di Dio, che ovviamente (come si è accennato) ha anche determinato un cambiamento fondamentale dell’immagine di Cristo. Non che si sia negata l’esistenza di Dio, per carità. Semplicemente, si è cessato di riferirsi a Dio per la ‘realtà’ a cui ci si doveva rivolgere. Dio, cioè, ha perso la sua funzione. A questo punto viene da chiedersi con un certo stupore: Questo accadeva soltanto nella teologia della liberazione? Oppure essa ha potuto giudicare la questione di Dio come non pratica per il futuro progetto di riforma del mondo semplicemente perché la cristianità da tempo così pensava o, addirittura, così viveva, senza pensarci e senza accorgersi? La coscienza cristiana non si è forse, senza accorgersi, rassegnata all’idea che la fede in Dio fosse un fatto soggettivo, ristretto alla sfera del privato e non estensibile alle attività comuni della vita pubblica, in cui ci si doveva inserire per poter collaborare, «etsi Deus non daretur» (nel caso in cui Dio non esistesse)? Non si doveva trovare una strada percorribile anche nel caso in cui Dio non fosse esistito? La conseguenza naturale fu che, di fatto, al momento del passaggio della fede dallo spazio chiuso del religioso all’ambito pubblico e generale non fu riconosciuta a Dio alcuna funzione, ma si tese ad accantonarlo dov’era prima: nella sfera privata, intima, riguardante soltanto il singolo individuo. Perciò, lasciando Dio come Dio senza funzione, e tanto più che spesso si era abusato del suo nome, non era necessaria una particolare noncuranza nei suoi confronti né opporgli un rifiuto consapevole. La fede sarebbe uscita veramente dal ghetto soltanto se avesse portato nella sfera pubblica ciò che le è proprio, il Dio che giudica e soffre, il Dio che pone all’uomo limiti e criteri; il Dio da cui prende vita e a cui ritorna ciascuno di noi. Più che mai, invece, questo Dio è rimasto di fatto relegato nel ghetto dell’inservibilità.
In realtà, Dio è ‘pratico’; non è un mero corollario teorico a una determinata visione del mondo, un’idea a cui ricorrere per trovare conforto o appiglio o, semplicemente, un concetto che si possa ignorare. Al giorno d’oggi questo fatto è evidente soprattutto dove la negazione consapevole di Dio non è rimasta senza conseguenze e dove niente sembra poter mitigare l’assenza di Dio.
Poiché, in un primo momento, dove si dimentica Dio, tutto sembra continuare come prima. Le scelte fondamentali, le principali forme di vita non vengono meno, anche quando hanno perduto la loro motivazione di fondo. Ma se, come sostiene Nietzsche, il messaggio della morte di Dio giunge a destinazione, se tocca il cuore dell’uomo, tutto allora assume una prospettiva diversa. Questo dato di fatto si riflette oggi nel rapporto tra scienza e vita umana, dove l’essere umano è visto come un oggetto della tecnica e scompare sempre più come essere umano.
Alla notizia che in laboratorio si ‘coltivano’ embrioni come ‘materiale di ricerca’, da cui ottenere ‘scorte’ di organi che potrebbero servire ad altri esseri umani, si leva ancora soltanto qualche rara voce di protesta inorridita. Il progresso richiede questo e altro. L’obiettivo è senz’altro nobile: migliorare la qualità della vita dell’uomo, perlomeno di coloro che hanno accesso a questi servizi. E, tuttavia, se l’uomo alla sua origine e nelle sue radici è per se stesso soltanto un oggetto, se l’uomo ‘produce’ e in questo processo produttivo viene selezionato in base a desideri e necessità, che cosa dovrebbe pensare l’uomo dell’uomo? Come si deve comportare? Come si porrà l’uomo nei confronti dell’uomo, se nell’altro non trova più niente del mistero divino, se non il suo illimitato potere di fare?
Quello che si mostra qui, nelle zone ‘elevate’ della scienza, è il riflesso speculare di una realtà dove è possibile strappare Dio dal cuore degli uomini, anche a livello capillare. Esistono oggi nel mondo zone franche per il commercio umano, per lo sfruttamento cinico dell’uomo, di fronte alle quali la società è assolutamente inerme. Le associazioni criminali albanesi, per esempio, hanno organizzato un florido commercio di donne, che sotto falso pretesto vengono trasferite nei paesi europei vicini, dove sono costrette a prostituirsi. E, poiché in Europa il numero dei cinici che richiedono questo tipo di ‘merce’ è abbastanza alto, le organizzazioni criminali diventano sempre più potenti. Alle autorità giudiziarie non resta che constatare che per ogni testa mozzata c’è una testa pronta a ricrescere sul corpo di quest’idra del male. Che dire, poi, del dilagare attorno a noi, nella nostra società apparentemente governata dall’ordine, della violenza che dà l’idea di diventare sempre più naturale e sempre più incontrollata? Non intendo continuare a elencare il numero degli orrori. È necessario, tuttavia, cominciare a chiedersi se non sia forse Dio la vera realtà, il presupposto fondamentale di ogni ‘realismo’, tale che senza di esso nulla può rimanere integro.
Riprendiamo l’excursus storico a partire dal 1967. Si è detto che il 1989 non portò nuove risposte, bensì si limitò ad acuire le perplessità e ad alimentare lo scetticismo nei confronti dei grandi ideali. Qualcosa accadde, tuttavia. La religione tornò a essere un fenomeno moderno. Non solo si cessò di auspicarne la scomparsa, ma si assistette addirittura a una sua proliferazione in forme diverse. Nell’opprimente solitudine di un mondo rimasto privo di Dio, nella sua monotonia, la ricerca della mistica, di una relazione con il divino, tornò a sbocciare. Dovunque si parli di visioni e messaggi dal mondo ultraterreno e dovunque si senta pronunciare la parola ‘apparizione’, si dirigono migliaia di persone, forse nella speranza di scoprire nel mondo uno spiraglio attraverso cui guardare al cielo e trovare conforto. Si lamenta il fatto che questo nuovo bisogno di religiosità ignori le chiese cristiane tradizionali. L’istituzione fa problema, il dogma fa problema. Si cerca l’esperienza vissuta, l’esperienza del totalmente altro. Personalmente non vorrei aderire senza riserve a questa lamentela. Nelle grandi giornate mondiali della gioventù, come l’ultima a Parigi, la fede diventa esperienza e regala la gioia di sentirsi comunità. Qualcosa di estatico, nel senso buono del termine, viene condiviso. All’estasi tetra e distruttiva della droga, dei ritmi martellanti della musica moderna, del frastuono e dell’ebbrezza si oppone l’estasi splendente della luce, del gioioso incontro nel sole di Dio. Non si direbbe un fenomeno passeggero, sebbene i fenomeni passeggeri siano senza dubbio abbastanza frequenti. Oppure potrebbe trattarsi di un momento destinato a farsi cammino, a indicare un percorso. Lo stesso accade per i movimenti che sono emersi numerosi negli ultimi decenni: anche in questi casi la fede si sperimenta come forma di vita, gioia di mettersi in cammino e di partecipare del mistero del lievito che tutto penetra e rinnova dall’interno. Alla fine anche i luoghi delle apparizioni potrebbero, purché intrinsecamente sani, diventare occasioni per iniziare una ricerca nuova e sobria di Dio.
Chi si aspettava che il cristianesimo si sarebbe trasformato in un movimento di massa ha capito di essersi sbagliato: non sono i movimenti di massa a racchiudere in sé promesse per il futuro. Il futuro nasce quando delle persone si incontrano su convinzioni comuni, capaci di dar forma all’esistenza. E il futuro cresce positivo se queste convinzioni scaturiscono dalla verità e alla verità conducono.
La riscoperta della religione, tuttavia, mostra un’altra faccia della medaglia. Si è detto che questa riscoperta tende alla religione come esperienza di vita, che un aspetto considerato importante è il lato ‘mistico’ della religione, la religione intesa come incontro tangibile con il totalmente Altro. Nel contesto storico in cui viviamo ciò significa che le religioni mistiche dell’Asia (parte dell’induismo e del buddismo) sembrano più adatte, per il loro rifiuto del dogmatismo e la loro struttura limitatamente istituzionalizzata, ad un’umanità illuminata rispetto al cristianesimo, organizzato com’è in forme istituzionali e ben definito da contenuti dogmatici. È anche vero che un po’ ovunque le religioni sono sottoposte oggigiorno a una relativizzazione, per cui, al di là delle differenze o delle contraddizioni, sotto le varie figure a interessare la gente in fin dei conti è soltanto l’aspetto interiore di tutte le diverse forme, l’incontro con l’indicibile, con il mistero nascosto.
E vi è accordo sul fatto che questo mistero non si mostra totalmente in nessuna forma di rivelazione, ma rimane piuttosto sparso e frammentario, e tuttavia come unico e medesimo è ricercato e agognato. Che sia impossibile per l’uomo conoscere Dio e che tutto quanto è detto e rappresentato non possa essere che un simbolo è una delle certezze di fondo dell’uomo moderno, da lui in qualche modo intesa anche come atteggiamento di umiltà di fronte all’infinito. A questa relativizzazione si ricollega l’idea della grande armonia delle religioni, che reciprocamente si riconoscono come modi diversi di rappresentare l’unico Eterno e che dovrebbero lasciare all’uomo la libertà di scegliere quali vie percorrere per raggiungere ciò che le unisce tutte. In questo processo di relativizzazione sono decisamente sottoposti a una modificazione soprattutto due aspetti fondamentali della fede cristiana, vale a dire:
1. La figura del Cristo viene spiegata in termini completamente diversi non solo rispetto al dogma, ma rispetto agli stessi vangeli. A essere accantonata, cioè, è la fede che Cristo sia il figlio unico di Dio, che in lui Dio si sia realmente fatto uomo tra gli uomini e che l’uomo Gesù sia eternamente in Dio, sia Dio stesso, quindi non una forma di manifestazione di Dio, bensì il Dio unico e insostituibile. Cristo, cioè, da uomo che è Dio diventa uomo che ha sperimentato Dio in modo speciale. Egli è un illuminato e, in quanto tale, non più sostanzialmente diverso rispetto ad altri illuminati, come il Buddha. Con questa interpretazione, però, la figura di Gesù viene a perdere la sua logica intrinseca. Strappata alle sue radici storiche, essa viene compressa in uno schema che le è estraneo. Il Buddha, in ciò paragonabile tra l’altro a Socrate, allontana da sé le attenzioni: non è la sua persona a essere importante, ma solo ed esclusivamente la via da lui mostrata. Chi trova la via può dimenticare il Buddha. Al contrario, nel caso di Gesù è la sua persona a essere importante. Nel suo «Io sono» riecheggia l’«Io sono» pronunciato da Dio sul monte Oreb. La via consiste proprio nel seguire Gesù, poiché: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). Egli stesso è la via; non esiste alcuna via indipendentemente da lui; non esiste un cammino lungo il quale egli non conti più nulla. Se il messaggio lasciato da Gesù non è una dottrina, bensì la sua stessa persona, non si può non riconoscere in questo Io di Gesù un rimando al Tu del Padre; quindi un Io importante in quanto realmente ‘via’, non in quanto Io in sé. «La mia dottrina non è mia» (Gv 7,16). «Io non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 5,30). L’Io è importante perché coinvolge l’uomo nella dinamica della missione, perché porta l’uomo a superare se stesso e a unirsi con colui per il quale è stato creato. Se la figura di Gesù viene sottratta a questo ordine di grandezza, che certamente provoca sempre scandalo, se viene separata dall’essere Dio, essa diventa allora contraddittoria: rimarrebbero solo dei frammenti che ci lascerebbero perplessi o si tradurrebbero in pretesti per indulgere nell’autoaffermazione.
2. Il concetto di Dio cambia in maniera sostanziale. Il problema se Dio debba essere concepito come persona o in modo apersonale passa in secondo piano. Viene a cadere anche l’ultima fondamentale differenza tra le religioni teisti che e non teistiche. E questa prospettiva si sta diffondendo con una rapidità sorprendente. Anche i cattolici credenti e formati nella tradizione teologica, che desiderano condividere la vita della chiesa, chiedono con molta spontaneità: È davvero così importante pensare Dio come persona o pensarlo in modo impersonale? L’idea di fondo è che l’uomo dovrebbe essere il più possibile di larghe vedute, poiché il mistero di Dio sfugge comunque a tutti i concetti e a tutte le rappresentazioni. In questo modo, tuttavia, si colpisce il cuore stesso della fede biblica.
Lo ‘Shema’, ossia l’«Ascolta Israele» del Deuteronomio (Dt 6,4-9), è e rimane l’autentico fulcro dell’identità religiosa non soltanto di Israele, ma dell’intera cristianità. Con questa parola muore l’ebreo credente, i martiri ebrei hanno esalato l’ultimo respiro con essa e per essa: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo». Che poi questo Dio ci mostri in Gesù Cristo il suo volto (Gv 14,9), che Mosè non poteva vedere (Es 33,20), nulla cambia di questa professione di fede, nulla cambia della sostanza di tale identità. Nella Bibbia ovviamente non vi è un riferimento esplicito a Dio come persona nella forma del concetto, ma nella forma che Dio ha un nome. L’esistenza di un nome presuppone la possibilità di chiamare qualcuno, la possibilità di parlare, di ascoltare, di rispondere. Per l’immagine biblica di Dio questo aspetto è essenziale; eliminarlo equivarrebbe ad allontanarsi dalla fede della Bibbia. È indubbio che sono esistiti ed esistono tutt’oggi modi sbagliati e superficiali di concepire Dio come persona. Ogniqualvolta associamo a Dio l’idea di persona, la differenza tra la nostra idea di persona e la realtà di Dio è sempre infinitamente più grande di quanto esse hanno in comune, come ebbe modo di spiegare il IV concilio Lateranense a proposito del parlare di Dio.
Gli abusi del concetto di persona si verificano sempre e immancabilmente quando Dio viene sfruttato per il proprio tornaconto e così il suo nome viene profanato: il secondo comandamento, che vieta di pronunciare invano il nome di Dio, non è la conseguenza diretta del primo, che ci insegna ad adorare Dio.
A tale riguardo c’è sempre e continuamente da imparare dal discorso di Dio proprio delle religioni ‘mistiche’, con la loro teologia puramente negativa; per questo, inoltre, esistono cammini diversi per raggiungere Dio. Ma, quando scompare ciò che si intende con ‘nome di Dio’, ossia quando Dio è privato del suo essere persona, il suo nome viene pronunciato invano e cessa di essere onorato: esso, in sostanza, viene abbandonato.
Che cosa si intende con le espressioni ‘nome di Dio’ e ‘essere persona’? Questo, per l’appunto: non solo che è possibile fare esperienza di Dio al di là di ogni altra esperienza, ma che Dio stesso può manifestarsi, può comunicarsi. Nelle religioni, come il buddismo, dove Dio è concepito in maniera del tutto impersonale, ossia come nulla assoluto rispetto a quel tutto che l’uomo è in grado di cogliere come reale, non può esservi una relazione positiva ‘di Dio’ con il mondo. E il mondo diventa una valle di lacrime non più a cui dar forma, bensì da superare. In questi casi, anziché fornire dei criteri per poter vivere nel mondo, dei modelli di responsabilità sociale a cui ispirarsi, la religione suggerisce la via per travalicare il mondo terreno, la via della liberazione dal fardello delle apparenze.
Nell’induismo il discorso è diverso. L’essenziale è l’esperienza dell’identità: nel mio intimo io sono tutt’uno con il fondamento nascosto della realtà stessa, il celebre tat tvam asi delle Upanishad. La redenzione consiste nella liberazione dall’individuazione, dall’essere persona, nel superamento della distinzione, fondata sull’essere- persona, rispetto a tutto ciò che esiste: è necessario, cioè, eliminare l’illusione del Sé oltre se stesso. Il problema di questa prospettiva dell’essere è percepito molto acutamente nel neoinduismo. Se viene a mancare il concetto di unicità delle persone, non è più possibile fondare e difendere l’inviolabilità della dignità di ogni singola persona. Alla luce del cammino di riforma intrapreso in India (soppressione della legge sulle caste, abolizione del sacrificio della vedova, ecc.) era necessario prendere le distanze da questo punto di vista e riportare nella compagine del pensiero indiano il concetto di persona, così come esso si è sviluppato nella dottrina cristiana a partire dall’incontro con il Dio personale. In questo caso la ricerca della ‘prassi’ corretta, del retto agire, ha dato le mosse a una correzione della ‘teoria’: non è difficile, allora, guardare un po’ oltre e capire quanto sia ‘pratica’ la fede cristiana e quanto sia sbagliato liquidare come irrilevanti i grossi interrogativi sulle differenze.
Queste riflessioni portano fino al punto in cui viene oggi a inserirsi questa Introduzione al cristianesimo. Prima di tentare di sviluppare ulteriormente la prospettiva indicata, è forse necessario fare riferimento ancora alla situazione attuale della fede in Dio e in Cristo. Oggi si teme un ‘imperialismo’ cristiano e si professa una nostalgia per la splendida molteplicità delle religioni, per la serenità e la libertà che queste presumibilmente manifestavano all’origine. Il colonialismo sarebbe strettamente legato all’essenza del cristianesimo storico, che si dice non disposto ad accettare l’altro nella sua alterità e propenso a prendere tutto sotto la propria custodia. Le religioni e le culture dell’America Latina, quindi, sarebbero state calpestate e schiacciate, e sarebbe stata fatta violenza all’anima dei popoli che non si ritrovavano nel nuovo e a cui era stato estorto il vecchio. La gamma di possibili interpretazioni oscilla dalle più clementi alle più severe.
Secondo il giudizio più moderato, bisognerebbe accordare alle culture sommerse il diritto ad avere una loro patria nella fede cristiana e lasciare che si sviluppi una forma di cristianesimo autoctono. Secondo l’interpretazione più radicale, al contrario, il cristianesimo sarebbe per i popoli indigeni una forma di alienazione, da cui scaturirebbe un bisogno di affrancamento. Per quanto riguarda la promozione di un cristianesimo autoctono, questa deve essere intrapresa, beninteso, come un compito di vitale importanza. Tutte le grandi culture sono aperte l’una all’altra. Tutte hanno un contributo da dare al vestito di «gemme e tessuto d’oro» della figlia del re a cui accenna il Salmo 44, in cui i Padri riconoscono la chiesa. Senz’altro qualcosa è andato perduto e deve essere ricostruito. Non va dimenticato, tuttavia, che quei popoli hanno già trovato nella devozione popolare una propria espressione di fede cristiana. Il fatto che immagini chiave della fede, capaci di aprire le porte al Dio della Bibbia, siano diventate per loro il Dio sofferente e la Madre benevola deve suggerire qualcosa anche a noi e anche ai nostri giorni. Ovviamente, molto rimane ancora da fare.
Torniamo alla questione di Dio e di Cristo come fulcro di un’introduzione alla fede cristiana. Una cosa, ormai, è chiara: la dimensione mistica del concetto di Dio, che dalle religioni dell’Asia perviene a noi come appello, deve contraddistinguere nettamente anche il nostro pensiero e la nostra fede. Dio si è fatto concreto in Cristo e in questo modo anche il suo mistero è diventato più profondo. Dio è sempre infinitamente più grande di qualsiasi nostra definizione e di qualsiasi nostro tentativo di dargli un’immagine o un nome. Il fatto di riconoscere Dio come trino non significa sapere tutto di lui, al contrario: questa è la dimostrazione di quanto sia limitata la nostra conoscenza e di quanto sia povera la nostra capacità di comprendere o abbracciare la natura divina. Se oggi, dopo gli orrori dei regimi totalitari (penso al monumento commemorativo di Auschwitz), su noi tutti grava la cocente questione della teodicea, ancora una volta è evidente quanto sia modesta la nostra capacità di definire Dio, se non addirittura di scrutarlo. La risposta di Dio a Giobbe non serve a spiegare, bensì soltanto a correggere la nostra illusione di poter giudicare tutto e di poter sentenziare su tutto, e a ricordarci i nostri limiti. Essa esorta i fedeli a credere al mistero divino nella sua incomprensibilità.
A questo punto è bene anche mettere in evidenza, attraverso le tenebre, la luminosità di Dio. Il prologo di Giovanni presenta l’idea del Lógos come centrale alla fede cristiana in Dio. Il termine lógos significa ragione, senso, ma anche parola; quindi, un senso che è parola, che è relazione, che è creativo. Dio, che è Lógos, assicura all’uomo la sensatezza del mondo, la sensatezza dell’esistere, la corrispondenza di Dio alla ragione e la corrispondenza della ragione a Dio, sebbene la sua ragione travalichi continuamente la nostra e spesso possa sembrarci oscura. Il mondo nasce dalla ragione e questa ragione è persona, amore: è questo il messaggio della fede biblica in Dio. La ragione può parlare di Dio, deve anzi parlare di Dio, se non vuole amputare se stessa. Alla ragione è legata l’idea della creazione. Il mondo non è soltanto maya, apparenza, che l’uomo deve, da ultimo, lasciarsi alle spalle. Il mondo non si riduce all’infinita ruota delle sofferenze, a cui l’uomo deve cercare di sottrarsi. Il mondo è positivo. Nonostante tutto il male in esso contenuto e nonostante tutte le pene sofferte, il mondo è buono ed è cosa buona viverci. Dio, che è creatore e che si esprime attraverso la sua creazione, dà un orientamento e una misura anche all’operare umano. Oggi l’umanità vive la crisi dell’etica, che da tempo ha smesso di essere mera questione accademica per diventare una questione del tutto pratica. Che l’etica sia, in fin dei conti, ingiustificabile è un concetto che si sta diffondendo e che inizia ad avere un certo impatto. Sul tema dell’etica si sprecano fiumi di inchiostro, un fenomeno che, da un lato, testimonia dell’attualità del problema e, dall’altro, dimostra la confusione imperante attorno a noi in questo momento. Nel suo percorso filosofico Kolakowski ha richiamato molto energicamente l’attenzione sul fatto che la cancellazione della fede in Dio, gira e rigira, finisce per togliere fondamento all’etica. Se il mondo e l’essere umano non derivano da una ragione creatrice che in sé ne racchiude la misura e che la iscrive nell’esistenza umana, non rimangono che le regole del comportamento umano, che vengono ideate e giustificate in base alla loro utilità. Non rimane che il calcolo degli effetti, ciò che viene denominato proporzionalismo o etica teleologica. Ma chi può veramente giudicare gli effetti del momento? Non c’è il rischio che una nuova classe dominante si appropri della chiave dell’esistenza, della gestione dell’essere umano? Se tutto si riduce al calcolo degli effetti, la dignità umana non ha più senso di esistere, perché niente è più in se stesso buono o cattivo. Il problema dell’etica è all’ordine del giorno e deve essere affrontato con la massima urgenza. La fede nel Lógos, nella parola originaria, concepisce l’etica come re-sponsabilità, come capacità di rispondere alla parola, e conferisce alla parola la sua razionalità come suo orientamento fondamentale. In questo modo essa si impegna anche a ricercare una comune comprensione della responsabilità con una ragione investigativa e con le grandi tradizioni religiose dell’umanità. Non esiste soltanto la vicinanza interiore delle tre grandi fedi monoteistiche; esistono anche le significative convergenze con un’altra matassa della religiosità asiatica, che porta al confucianesimo e al taoismo.
Se per l’immagine cristiana di Dio il termine lógos – inteso come parola originaria, ragione creatrice e amore – è determinante e se il concetto di lógos costituisce al tempo stesso il fulcro della cristologia, della fede in Cristo, ancora una volta non resta che confermare l’inscindibilità tra fede in Dio e fede nel suo figlio Gesù Cristo fattosi uomo. Racchiudere tra parentesi la fede nella divinità di Gesù non serve a capire meglio Gesù e ad avvicinarsi di più a lui. Al giorno d’oggi è alquanto diffuso il timore che la fede nella sua divinità ce lo renda estraneo. E, tuttavia, non è soltanto per far piacere alle altre religioni che si vorrebbe scrivere questa convinzione a caratteri minuscoli. Tali timori sono, innanzitutto, tipici della nostra società occidentale. È come se tutto ciò non si addicesse alla moderna visione del mondo. Potrebbe trattarsi soltanto di mitizzazioni, trasformate in metafisica dallo spirito greco. Ma, se separiamo Cristo da Dio, diventa lecito dubitare che Dio possa esserci così vicino, che possa chinarsi tanto verso di noi. Sembra un atto di umiltà il fatto di non volere questo. Tuttavia, a buon diritto Romano Guardini ha richiamato l’attenzione sul fatto che, invece, la forma più alta di umiltà consiste nel lasciare a Dio la libertà di fare anche ciò che all’uomo appare inopportuno e nell’inchinarsi dinanzi a ciò che Dio compie e non a ciò che l’uomo si immagina oltre lui e al suo posto. Dall’idea della lontananza di Dio dal mondo, sottesa a questo nostro realismo apparentemente umile, scaturisce una perdita della presenza di Dio. Se Dio non è in Cristo, egli ritorna a dimorare in una lontananza incommensurabile; e se Dio cessa di essere un Dio in mezzo agli uomini, egli diventa un Dio assente e, per conseguenza, un non-Dio: giacché un Dio privato della capacità di agire non è Dio. Per quanto concerne il timore che Gesù, a causa della fede nella sua figliolanza divina, si allontani da noi uomini, in realtà è vero il contrario: e, cioè, se Gesù è stato un semplice uomo, egli appartiene irrevocabilmente al passato e può essere percepito, con maggiore o minore chiarezza, solo attraverso un lontano ricordo. Se, al contrario, Dio si è realmente fatto uomo e, quindi, in Gesù Cristo è al tempo stesso vero uomo e vero Dio, Gesù partecipa come uomo del presente di Dio, che abbraccia tutti i tempi. Allora e soltanto allora Dio non è mero passato, ma è presente tra gli uomini, nostro contemporaneo nel nostro oggi. Perciò, e di questo sono assolutamente convinto, un rinnovamento della cristologia deve avere il coraggio di concepire il Cristo in tutta la sua grandezza, così come ce lo mostrano i quattro vangeli presi assieme, nella loro unità carica di tensione.
Se oggi dovessi riscrivere l’Introduzione al cristianesimo, non potrei non includervi tutte le esperienze degli ultimi trent’anni e, di conseguenza, non potrei non affrontare con maggior vigore rispetto al passato anche gli interrogativi interreligiosi. Credo, tuttavia, di non avere sbagliato l’orientamento di fondo ponendo al centro della discussione la questione di Dio e la questione di Cristo, che sfocia in una ‘cristologia narrativa’ e indica il ruolo della fede nella chiesa. L’orientamento di fondo, quindi, era a mio avviso corretto. Da qui il mio coraggio oggi di porre ancora una volta il libro nelle mani del lettore.
Roma, aprile 2000.
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Da Joseph Ratzinger "Introduzione al Cristianesimo", Queriniana, 2000