In questo blog è possibile trovare molti testi del teologo, del professore e del cardinale Joseph Ratzinger
giovedì 30 luglio 2009
"Ciò che offende i musulmani e i fedeli di altre religioni non è parlare di Dio o delle nostre radici cristiane, ma piuttosto il disprezzo di Dio..."
Dialogo su storia, politica e religione
ROMA, lunedì, 9 maggio 2005 (ZENIT.org).
Pubblichiamo di seguito il testo completo del colloquio a due fra l’allora cardinale Joseph Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, e lo storico Ernesto Galli della Loggia su “storia, politica e religione”, tenutosi nell’ottobre 2004 nell'ambito degli incontri organizzati dal Centro di orientamento politico, presieduto da Gaetano Rebecchini.
* * *
Joseph Ratzinger: Nello scorso gennaio ho avuto un dialogo con Habermas, il filosofo considerato nel mondo di lingua tedesca come il laico più puro.
Nella sorpresa dei suoi ammiratori aveva detto, più o meno due anni fa, a Francoforte, che conviene per un laico essere attento alla saggezza nascosta nelle tradizioni religiose. Era per lui stesso una scoperta nuova, e in quell'incontro ha espresso il desiderio che si trovino delle persone religiose capaci di decifrare il linguaggio tradizionale e di tradurre in linguaggio laico il tesoro di saggezza che, nella sua convinzione strettamente laica, è nelle tradizioni religiose.
Ci troviamo in una situazione del mondo in cui conviene mobilitare tutte le forze morali per riuscire a stabilire una convivenza pacifica. Abbiamo bisogno del dialogo di tutti i responsabili.
Vediamo certamente che nel mondo di oggi esistono tante nuove possibilità positive, tante speranze, ma anche tante minacce e tanti pericoli. E su questo sottofondo del nostro dialogo vorrei indicare due elementi. Il primo: il nostro mondo, come vediamo e tocchiamo ogni giorno, è caratterizzato da una progressiva unificazione. Tutte le culture si toccano in permanenza, in Europa sono presenti l'Asia e l'Africa, è presente il mondo musulmano e nelle altre parti del mondo sono presenti le altre culture. Soprattutto c'è una presenza universale della cultura tecnica nata in occidente e determinante in tutte le parti del mondo per la vita di ogni giorno. C'è una presenza unificante, in un certo senso, della cultura tecnica e così della cultura laica.
Vediamo come gli edifici siano uguali ovunque nel mondo, la televisione dà uniformazione al nostro comportamento, fino al vestiti e ai canti, e questo fattore tuttavia ha due aspetti: da una parte crea unificazione fino alla uniformità, ma nello stesso tempo provoca ribellione, resistenza contro questa imposizione, contro una cultura aliena che appare anche, nonostante tutti i vantaggi che comporta, una imposizione straniera e una minaccia contro la propria identità.
Così vediamo che insieme a questa unificazione cresce anche una ribellione contro l'uniformità, un desiderio, una volontà ferma, radicale, anzi violenta di difendere la propria identità contro questa uniformazione, un'esacerbazione contro un'imposizione che appare da una parte utile, dall'altra come schiavitù.
C'è da aggiungere che si vede in tutte le parti del mondo il lusso del mondo occidentale, si può immaginare che tutti qui vivano nella ricchezza e nel lusso, e fare esperienza nello stesso momento della propria povertà e della propria espropriazione non solo culturale ma anche materiale.
La contraddittorietà di questa cultura che appare dall'occidente e si mostra nel proprio mondo radicalizza il senso di una schiavitù contro la quale ci si deve difendere. Così l'uniformazione crea anche la parzializzazione delle culture del mondo e l'opposizione tra queste culture.
Questa cultura è considerata occidentale, l'occidente è identificato con cristianesimo e quindi questa opposizione si dirige non solo contro l'occidente ma diventa anche un'opposizione crescente contro la cristianità e il cristianesimo.
Trovare una risposta giusta tra unità e molteplicità mi sembra una cosa importante, nel rispetto delle altre culture, e tra l'insieme della cultura uniformante dell'occidente e la ricchezza delle grandi culture. E' un compito di grande importanza e priorità.
L'altro punto della nostra situazione al quale volevo accennare consiste nel fatto che è cresciuto, in un modo inimmaginabile fino a poco tempo fa, il potere dell'uomo. Potere che arriva fino alla possibilità dell'autodistruzione, della distruzione del proprio pianeta, potere che d'altra parte è arrivato alle radici del nostro essere: l'uomo è capace di fare l'uomo, di produrre in laboratorio l'uomo. L'uomo non appare più come un dono della natura, di Dio, ma diventa un prodotto nostro, che si può fabbricare, e quando si può fabbricare si può anche distruggere, sostituire con altre cose. Così, questa capacità di per sé positiva di andare fino alle radici del suo essere, diventa man mano una minaccia più pericolosa dei mezzi di distruzione, perché tocca l'essere umano nel più intimo fondamento.
L'uomo “fatto”, l'uomo fabbricato, diventa anche una merce; si possono produrre esseri umani per scopi di ricerca, sempre con apparenti benefici. Tuttavia l'uomo diventa, la stessa creatura umana diventa, un laboratorio con il quale cercare dei progressi in certi settori.
E così automaticamente si è introdotto anche il commercio dell'essere umano, l'uomo come merce. Lo vediamo non solo nel mercato degli organi, ma anche nel mercato della prostituzione e della pedofilia, in tutti questi fenomeni di una società veramente ammalata, che non vede più nell'uomo lo splendore divino ma solo un prodotto fatto da noi.
Da una parte abbiamo questa crescita, inimmaginabile fino a poco tempo fa, delle nostre capacità, delle nostre possibilità, del nostro potere, che potrebbe essere, ed è in molti sensi, una cosa positiva. Ma è anche, come ho accennato, qualcosa che implica grandi pericoli. Dobbiamo dire che con questa capacità di fare, con questa capacità di produrre, con queste conoscenze della ricerca che arrivano fino alle radici dell'essere non è cresciuta ugualmente la nostra capacità morale.
Questa mi sembra la formula più precisa per esprimere il dilemma del nostro tempo che vediamo con il crescere permanente delle nostre capacità, del nostro potere, e una crescita non equivalente delle nostre capacità morali.
Questo squilibrio tra potere tecnico, potere di fare, e la capacità di dominare il nostro essere con principi che garantiscono la dignità dell'uomo e il rispetto della creatura, del mondo, questo squilibrio è la grande sfida alla quale rispondere positivamente è dovere di noi tutti.
Quindi provoca necessariamente la necessità di un dialogo aperto, franco, tra rappresentanti della fede cristiana e laici di diverse sfumature, perché sappiamo bene che il concetto di laico, come quello di cristiano, implica tante diverse realizzazioni. Sono venuto quindi a questo dialogo con la consapevolezza di una comune responsabilità nel far fronte alla sfida dello squilibrio tra il nostro potere e la nostra capacità morale, e il mio scopo nel dialogo con il professor Galli della Loggia è proprio quello di cercare insieme, forse non risposte già pronte, ma almeno piste sulle quali si può andare avanti.
Ernesto Galli della Loggia: Sua Eminenza ha spiegato l'intendimento di questo colloquio. Non so se posso considerarmi il più puro dei laici, come Habermas si considera, forse qualcuno avrebbe qualche obiezione in merito. Comunque anch'io, come Habermas, penso che oggi la considerazione per gli elementi spirituali e religiosi sia diventata un elemento fondamentale per l'orientamento nella situazione storica nella quale ci troviamo, indipendentemente dalla fede che ognuno di noi custodisce nel proprio cuore o manifesta all'esterno.
Proprio per questo anche la parola “laico” è una parola che forse copre a stento la molteplicità di significati che oggi più che mai le possono essere attribuiti. Mi sono posto di fronte al tema gigantesco del nostro colloquio con le mie competenze culturali e professionali, per quello che sono, cioè quelle di uno storico. Mi sembra, da questo punto di vista, se è possibile rinvenire un filo rosso che lega molti aspetti della situazione odierna, che si potrebbe cominciare forse con l'ipotesi che la globalizzazione segni un momento di crisi e di rottura nella secolarizzazione, in quel processo cioè che l'Europa vive da duecento anni, e che ha visto la sostituzione dell'antica fede religiosa come elemento di orientamento e di guida per la maggior parte degli abitanti di una società nel suo complesso.
Questa appartenenza religiosa è stata via via erosa e sostituita da altre due appartenenze identitarie: l'appartenenza ideologica e le appartenenze nazionali. Esse sono state, mi sembra, i due grandi surrogati della fede religiosa tradizionale che hanno caratterizzato il lungo percorso della secolarizzazione occidentale. Oggi però, se non m'inganno, la globalizzazione mette in crisi precisamente queste due grandi prospettive che da duecento anni accompagnano l'occidente, e cioè appartenenza ideologica e nazionale. Entrambe segnano evidentissimi momenti di difficoltà, se non addirittura di discredito culturale. L'identità nazionale e le identità ideologiche le sentiamo sempre più come cose che non funzionano. La globalizzazione segna un processo di sgretolamento di queste due identità e il mondo politico reagisce con difficoltà alla riproposizione del problema dell'identità.
Nelle nostre società si sta creando, proprio per effetto della globalizzazione, un grande vuoto identitario, e a reagire con difficoltà è soprattutto il mondo politico democratico, perché il tema dell'identità è un tema sentito come pericoloso. E' un tema che contrasta, forse semplicemente in apparenza, ma in realtà per alcuni aspetti contrasta realmente, con la tensione universalistica tipica del pensiero democratico. Quella che ormai noi abbiamo assorbito nelle nostre istituzioni, che il nostro stesso pensare sociale ha assorbito. Il fattore identitario sembra contraddire questa spinta universalistica, tipica della democrazia. A me pare che ci siano molti aspetti che possano essere ricondotti a questa difficoltà, a questo vuoto identitario.
Ne cito soltanto uno, perché mi sembra naturalmente quello più importante: l'emergere rapido e prepotente, dappertutto in occidente, della tematica dei diritti umani come unica possibile appartenenza identitaria dei popoli dell'occidente. Anche perché il tema dei diritti umani è un tema metanazionale e in qualche modo metaideologico, anche se in realtà assistiamo a una forte ideologizzazione di quel tema. Non è un caso, credo, che l'Unione europea abbia deciso, e abbia scritto nella sua Costituzione, che essa è quel soggetto politico che esiste per l'appunto per sostenere i diritti umani, che la sua vera sostanza ideologica ideologica è nei diritti umani, non nella democrazia: nei diritti umani (questo è scritto, se non vado errato, nei primissimi articoli della Costituzione) e in quella sorta di appendice esterna dei diritti umani che è la promozione della pace, e in generale la promozione di tutte le organizzazioni e dell'idea di organizzazione internazionale.
Penso che forse bisogna chiedersi da dove nascono i diritti umani, ma mi pare ci sia stato il rifiuto di farsi questa domanda. Sono un prius oppure nascono su un terreno storico, sono a loro volta le conseguenze di qualcosa? E se così è, come credo sia difficile negare, si può riandare alla fonte dei diritti umani oppure no? L'Unione europea ha risposto di no, che non si può andare a vedere da dove vengono i diritti umani. Perché ci sarebbe il problema, storicamente inoppugnabile, che i diritti umani nascono nell'ambito della cultura e della civiltà giudaico-cristiana. Ma questo non si può dire, perché giudaismo e cristianesimo sono religioni e quindi, a maggioranza, è stato deciso che sarebbe inopportuno. Può darsi che si tratti di una decisione saggia, non lo discuto, però è interessante ripercorrere lo svolgimento delle cose.
Quindi, in questa logica, i diritti umani esistono a prescindere da ciò da cui sono nati, da qualsiasi loro elemento fondativo. Bastano a se stessi, di per sé sono un'identità. In questo modo sono una pura identità procedurale, svincolati dalla propria base storica, diventano un'identità. Habermas ha parlato molte volte di “patriottismo costituzionale”, per contrapporlo al patriottismo valoriale, fondato cioè sui valori di tipo identitario storico.
Ora mi sembra che siamo di fronte a qualcosa che assomiglia al patriottismo costituzionale, a un'identità procedurale. Il problema è che le altre culture, gli altri protagonisti della scena internazionale non credono che i diritti umani siano procedurali. Pensano viceversa che siano, come è difficile negare, il frutto di una cultura determinata, e che questa è la cultura dell'occidente. Quindi non vedono affatto nei diritti umani quella sorta di identità metanazionale di cui tutti potrebbero fruire. Bensì, molto spesso, proprio nelle sedi internazionali, vedono nei diritti umani uno strumento dell'imperialismo ideologico dell'occidente, ne denunciano l'apparenza falsa di ideologia per tutti, di segno universale. Ne denunciano l'aspetto, a loro giudizio, assolutamente ideologico e assolutamente occidentale, e quindi il tentativo imperialistico di sopraffazione che sarebbe dietro la diffusione di questi diritti. Anche da qui la risposta del fondamentalismo cui ha accennato il cardinale Ratzinger.
Ratzinger: La struttura del nostro incontro è suddivisa in tre blocchi tematici. Il primo è dedicato al relativismo occidentale come grande problema della nostra situazione etica, e dall'altra parte se di fronte a questo dilemma possano valere le risposte tradizionali della fede cristiana, cioè il diritto naturale e la visione di libertà sviluppata dal cristianesimo. Io penso, per rispondere a quanto è stato detto dal professore, che il puro positivismo dei diritti umani come tale non può essere in nessun senso un'ultima parola. Forse è sufficiente per una costituzione, non lo posso decidere, ma per il nostro dibattito culturale umano, per il nostro incontro con le altre culture non è sufficiente.
Questo positivismo è però solo la facciata di un dilemma più profondo. Non ci sono più motivazioni per i nostri grandi principi etici, per la dignità umana e si arriva finalmente al positivismo perché anche il patriottismo costituzionale di Habermas è un positivismo. La costituzione, così ha detto anche a Monaco durante il nostro dialogo, di per sé produce la moralità. Ma non è vero, non lo fa, ha bisogno di forze precedenti, e dobbiamo ritrovare e risvegliare queste forze. Il relativismo da un parte può apparire come positivo, in quanto invita alla tolleranza, facilita la convivenza, il riconoscimento fra culture, fino al punto di ridimensionare le proprie convinzioni e riconoscere il valore degli altri relativizzando se stessi: è un passo positivo.
Ma se si trasforma in un assoluto, il relativismo diventa contraddittorio in se stesso, distrugge l'agire umano e in ultima istanza mi sembra una mutilazione della nostra ragione. Ragionevole viene considerato allora soltanto ciò che è calcolabile e falsificabile o provabile nell'esperimento del grande settore, settore ammirevole, delle scienze. Qui si vede se questo è falso, se questo non lo è, se questo funziona e questo non funziona. Questo settore appare come l'unica espressione della razionalità, tutto il resto è soggettivo.
Il grande fisico Max Planck si considerava come un uomo religioso, tuttavia ha detto che dobbiamo ripristinare la religione ma come una cosa del soggetto. Ma se le questioni essenziali della vita umana, le grandi decisioni sulla vita, sulla famiglia, sulla morte, sui comportamenti, sulla condivisione della libertà e il modo etico di condividerla, sono tutti solo nella sfera della soggettività, allora non abbiamo più criteri. Ogni uomo può e deve agire soltanto secondo la sua cosiddetta coscienza. Coscienza, nella modernità, diventa la divinizzazione della soggettività, mentre nella tradizione cristiana è proprio il contrario, è la convinzione che l'uomo è trasparente e può sentire in se stesso la voce della ragione stessa, della ragione fondante del mondo. E quindi il soggetto non è chiuso in sé, un'ultima istanza, come una divinità, ma è una realtà aperta, per la ragione stessa che ciò ci permette di comunicare nelle grandi decisioni della nostra vita.
Superare quindi un razionalismo unilaterale che in realtà non allarga la ragione, non eleva la ragione ma amputa e riduce, e arrivare a una più larga concezione della ragione, che è creata non soltanto per poter fare ma per poter conoscere le cose essenziali della vita umana, è un imperativo urgente, del resto espresso nell'enciclica “Fides et ratio”. Il professore ha notato la questione se il ius naturale difeso dalla Chiesa cattolica può essere una risposta a questo e sappiamo bene che il mondo di oggi è convinto che non sia una risposta. Per la Chiesa era l'idea, la visione di un diritto naturale insito nella stessa creatura umana, il mezzo per poter dialogare con quanti non condividono la fede. Adesso anche il concetto di natura è ridotto al puramente empirico, a quanto si può osservare con la scienza, con la biologia nella dottrina dell'evoluzione. Quindi natura non indica più niente di umano, il diritto naturale si riduce quindi, aveva detto Ulpiano nel secondo secolo dopo Cristo, “ natura naturale est quod natura omnia animalia ducet”.
Ma noi non abbiamo bisogno soltanto di ciò che possono imparare tutti gli animali ma proprio dello specifico umano, e questo in una natura così considerata non appare. Ma dobbiamo forse tenere presente in quale senso nell'epoca moderna il concetto di diritto naturale che viene dall'antichità è rinato ed è stato rafforzato da due fonti: la scoperta delle Americhe era un grande appello, una grande domanda anche alla cristianità.
Queste genti, questi popoli che non appartengono alla cristianità, che non sono battezzati, che non appartengono alla nostra sfera di diritto, hanno un diritto o no? Sono da rispettare come soggetti di diritto o essendone fuori non hanno diritti e possiamo farne ciò che vogliamo? La posizione che finalmente ha vinto, con tante difficoltà, era quella che sì, hanno un diritto perché sono persone umane e come creature umane hanno il diritto insito nell'essere umano come tale. Questa non è una dottrina occidentale ma era proprio la difesa dei non occidentali contro l'occidente e rimarrà tale. E' fondamentale, nel nostro essere insieme, che l'uomo di per sé, senza nessun sistema precedente di diritto, è portatore di un diritto della persona umana come tale.
Il secondo punto è la divisione confessionale dell'Europa. C'era da ritrovare tra gli Stati una forma di pace anche morale, non solo giuridica e qui si è capito che se nella fede siamo divisi, abbiamo tutti la natura umana che indica comportamenti morali fondamentali.
Penso che non dovrebbe essere così impossibile, con tutte le riserve contro la metafisica che ben conosciamo, capire che questa non è un'invenzione cattolica ma è proprio la risposta alle sfide dell'essere umano: il riconoscimento che l'uomo, prima di tutte le costituzioni, ha diritti, e il diritto deve conformarsi ai diritti e non i diritti alla costituzione.
Dobbiamo anche ritrovare questi elementi in un dialogo interculturale perché, in forme diverse, questa stessa conoscenza è presente anche nelle altre culture, seppure non nello stesso modo, e dal nostro punto di vista è ancora da migliorare, come le nostre conoscenze. Pensiamo all'idea del Tao nel mondo cinese, del Dharma nel mondo indiano: concetti che presuppongono che l'uomo si trovi in un ordine del cosmo, che gli indica come vivere, e che precede le nostre decisioni. Quindi questa interculturalità, per riguadagnare un concetto comprensibile e accettabile, che divenga la piattaforma per una visione etica comune, mi sembra di grande importanza.
Arrivo al problema se la tradizione cristiana sia compatibile con il concetto di libertà sviluppato nella modernità, nel laicismo. Io distinguo tra laicismo e laicità, e se è così, per me è molto importante superare un malinteso concetto individualistico della libertà. C'è un concetto di libertà per il quale esiste solo, come portatore della libertà, il soggetto, l'individuo. E' il vecchio sogno di essere come un dio. Ma da due punti di vista è assolutamente sbagliato. E' sbagliato dal punto di vista antropologico, perché l'uomo è un essere finito, è un essere creato per convivere con altri e quindi la sua libertà necessariamente deve essere una libertà condivisa, che insieme garantisca per tutti la libertà e quindi supponga anche la rinuncia alla assolutizzazione dell'io, che è contro la verità e contro la realtà empirica.
Reimparare che la libertà è ben definita antropologicamente e sociologicamente soltanto se interpretata come libertà condivisa, è una cosa che implica il diritto comune, l'autorità. C'è il grande errore di considerare l'autorità in contrasto con la libertà. In realtà, un'autorità ben definita è la condizione della libertà, non in contrasto con essa. Siamo sulla strada delle migliori tradizioni cristiane, che sempre suppongono che l'uomo è creato per la libertà, una libertà umana, che è libertà condivisa. E' errata la convinzione che la mia volontà sia la mia unica misura e il mio unico criterio, anche da un punto di vista teologico. Questa idea, rendendo l'uomo come un dio, implica che possa fare come vuole, vede un idolo e non Dio, perché il vero Dio è verità e amore, e quindi la sua libertà è una libertà definita dalla verità e dall'amore.
Anche la nostra libertà diventa vera se si concilia con la nostra verità umana che è quella di una dipendenza dal creatore, di una intercomunione della libertà, e una dipendenza che è amore non è dipendenza ma è la condizione del nostro essere.
Quando si vede nella relazione tra due persone l'amore come dipendenza siamo sulla strada sbagliata, tanto più se consideriamo la nostra relazione con Dio come dipendenza. In realtà siamo esseri relazionali e questo non è un limite ma un'apertura infinita del nostro essere. In questo senso qui si nasconde, per tornare a Habermas, una delle ricchezze della saggezza della fede che devono essere trasportate nel nostro mondo di oggi.
Ernesto Galli della Loggia: Sua Eminenza ha citato l'antico antagonismo tra giusnaturalismo e positivismo, che è al cuore della riflessione del liberalismo ormai da più di tre secoli. Prima di toccare questo punto vorrei sottolineare il perché oggi c'è questo interesse, anche da parte di chi ha l'etichetta di laico, per il fatto religioso, spirituale. Penso che quel vuoto identitario di cui parlavo nel mio precedente intervento spinga a considerare il ruolo che il fatto spirituale ha sempre avuto nel costituire l'identità dei popoli, l'identità delle culture, l'identità della civiltà.
Anche un non credente non può non interrogarsi sulla forza storica che il fatto spirituale religioso ha avuto nel costituire le identità, e soprattutto su come il fatto religioso sia un tramite fondamentale per il rapporto con il passato, che è al cuore dell'identità storica di ogni popolo. Certo, oggi il ruolo della fede cristiana si trova messo in discussione anche da questo punto di vista. Credo che la non forte attenzione alle radici cristiane sia dovuta a un importante fatto storico intervenuto negli ultimi decenni: delle fedi cristiane è rimasto in piedi soltanto il cattolicesimo.
Non si può fare a meno di osservare come, dal punto di vista teologico e organizzativo, tutti gli altri cristianesimi siano sostanzialmente scomparsi come forze politiche attive sulla scena del mondo, e come fatto organizzato spirituale sia rimasto soltanto il cattolicesimo. Finché il cristianesimo si presentava come un'articolazione di confessioni, alcune delle quali storicamente anche molto diverse dal cattolicesimo dal punto di vista teologico, culturale e politico (anzi a volte anche ostili), quella modularità e quella varietà di posizioni rendevano in qualche modo più difficile isolarlo e contrastarlo.
Ma da quando il cattolicesimo ha assunto il ruolo di assoluta preminenza rispetto alle altre confessioni cristiane, è cresciuta la manifestazione di ostilità nei suoi confronti. Arrivo ora alla contrapposizione tra giusnaturalismo e positivismo, sulla quale c'è stata una divisione classica del pensiero liberale. Il liberalismo classico era giusnaturalista. Pensava che i diritti dell'uomo, la libertà umana si fondassero su un elemento naturale che rendeva l'uomo libero.
Poi, dalla fine dell'Ottocento in poi, si è affermato che la libertà è soltanto un fatto di diritto positivo: se c'è una legge che stabilisce la libertà, quella è la vera origine della libertà. Personalmente aderisco all'idea del giusnaturalismo, perché è evidente quale problema ci sia sotto: se la libertà poggia sul diritto naturale, poggia su qualcosa di enormemente più solido che non sulla semplice decisione di un parlamento, di un potere che come fa una legge può farne un'altra.
Questa divisione rimanda a un'altra divisione, oggi di primaria importanza all'interno del mondo liberale, e che molto ha a che fare con il rapporto tra il pensiero laico e la religione. Nel liberalismo sono sempre esistite due libertà spesso in contrasto tra loro: la libertà dei liberali e la libertà dei libertari: due cose molto legate ma con una forte differenza. Per il liberalismo classico la libertà era soprattutto la libertà dall'arbitrio. In inglese c'è ancora un'espressione che designa bene questo tipo di liberalismo, “rule of law”, il dominio della legge. Il liberalismo è innanzitutto la protezione dall'arbitrio che solo la legge, strumento che si applica a tutti, può garantire, e poi la limitazione dello Stato: questi sono i due fondamenti del liberalismo classico. La libertà dei libertari è invece quella definita nel modo migliore da Jeremy Bentham: “Ogni legge è un male perché ogni legge è una violazione della libertà”. Bentham vedeva in ogni legge un attentato a quello che Sua Eminenza chiamava il soggettivismo.
Qui siamo su un terreno scivoloso, perché non riesco a dare pienezza di contenuti a che cosa sia la libertà condivisa, e in quale modo essa si differenzi dalla concreta libertà dei soggetti. Il problema è che quando i liberali pensavano la libertà degli individui, pensavano sostanzialmente all'individuo storico, all'umanità europea che avevano davanti, all'antropologia europea che era di tipo cristiano, e mai avrebbero pensato che il progresso della scienza avrebbe in un secolo o due dilatato enormemente le possibilità della soggettività. Noi applichiamo le stesse parole, “soggetto, individuo, libertà”, a cose che nel tempo sono mutate in maniera assoluta. Questo ampliamento della soggettività è giunto sino al punto che il singolo individuo è padrone, o è vicino a esserlo, di decidere le modalità della generazione umana, cioè di quanto sembrava consegnato all'eternità della natura.
Il fatto che anche questo sia entrato nella disponibilità del soggetto ripropone il discorso della differenza della libertà dall'arbitrio, e della protezione dall'arbitrio, che può essere del potere e del sovrano. I vecchi liberali conoscevano solo quello, ma mi domando se anche la volontà soggettiva non possa presentarsi con forti caratteri arbitrari quando può disporre di decisioni come quelle che il progresso scientifico consente. Io penso che sia sbagliato ostentare certezze di fronte a questo tipo di problemi. Chi non ha il dono della fede non può ostentare certezze, deve mantenere un atteggiamento altamente problematico, cosa che spesso non accade. Credo soprattutto che non ci si possa limitare a dire: “questo campo è complesso, ognuno ha la sua verità, vanno bene tutte le verità purché non facciano male a nessuno, accettiamo il principio che non sia possibile definire nessuna verità”. Credo che questo sia un approccio assolutamente sbagliato.
Su aspetti come i confini tra la libertà e l'arbitrio su certi argomenti, il discorso pubblico deve essere animato da una tensione di verità. Il problema del vero e del falso si pone quando avvertiamo razionalmente che c'è un problema di giusto e di ingiusto, di bene e di male. Affidare la verità alla decisione individuale rischia di diventare un peccato contro il bene. Una società che non osserva su questi argomenti la tensione alla verità non può neanche essere una società giusta. L'ideale di una società giusta poggia sull'idea che la verità stia nella giustizia e la menzogna stia dalla parte dell'ingiustizia. Naturalmente discutere su ciò che è vero e ciò che è falso non porta alla conclusione che si debba adottare per legge una delle molte opinioni espresse durante la discussione stessa. Ma c'è un elemento di progresso morale nella discussione adeguata all'oggetto delle cose, che è altrettanto importante, per una società, dell'affermazione della verità.
Mi colpisce che molte persone che sostengono l'impossibilità di arrivare a una verità e quindi l'inutilità delle discussioni e quindi l'inevitabilità di delegare tutto all'arbitrio individuale perché tutto dipende dai valori individuali, siano poi le stesse persone che rivendicano la positività dell'utopia, cioè di un ideale astratto di giustizia, che dicono “guai alle società che non hanno utopia”. Ma che cos'è l'utopia, se non il porre al centro della discussione pubblica gli ideali di giustizia? Io penso che sia vero che l'utopia abbia una funzione positiva, a meno che non si trasformi in sogno concreto, penso che abbia un grande valore di promozione, di chiarificazione della realtà delle cose.
Ciò che colpisce un laico come me è il fatto che molto spesso, in Italia, quando si parla di questioni come la fecondazione assistita, la posizione prevalente da parte laica è di dire che il solo interrogarsi sul bene e sul male, sul giusto e sull'ingiusto, sul vero e sul falso a proposito di questi temi sia ozioso. Questo non significa che, per esempio, io personalmente aderisca alla posizione della Chiesa. A me pare che nella posizione della Chiesa ci sia stata una trasposizione singolare, un'identificazione tra il concetto di vita e il concetto di persona e che questa coincidenza tra due cose, che a mio giudizio sono molto diverse, sia stata segnata dall'enciclica “Evangelium vitae”.
Essa è stata, così almeno io l'ho letta, una specie di affermazione panvitalistica all'interno dell'idea cattolica. Perché sicuramente l'embrione è vita, chi potrebbe negarlo?, ma che sia persona mi pare difficile. Ora, attribuire alla vita gli stessi diritti che sono attribuiti e che tradizionalmente, nella teologia cattolica, erano attribuiti alla persona, farne la stessa cosa, a me pare inaccettabile. Non mi convince, perché urta contro un elemento di carattere razionale: l'embrione e la persona sono due cose diverse, due cose diverse devono avere diritti, statuti diversi. Sono sicuro che il Cardinale Ratzinger saprà in poche parole dare una risposta chiarificatrice che smantellerà la mia posizione abbondantemente eretica.
Joseph Ratzinger: Vorrei soltanto dire che anche io penso che l'uso della parola vita, che diverse volte sostituisce l'uso della parola persona, sia sbagliato e dobbiamo realmente distinguere tra vita (anche una pianta è vita, anche un verme è vita) e persona. La questione è se l'embrione sia una persona o no. Sarebbe una lunga discussione. Posso soltanto dire che nel documento della nostra congregazione abbiamo trattato la questione se si possa chiamare o no persona l'individuo. Ma è vero che la terminologia adesso molto diffusa è vaga e non chiarisce ma oscura il vero problema, perché vita e persona sono realtà da distinguere. Ma seguiamo la nostra pista, e le cose notate dal professor Galli della Loggia.
Temi quali la presenza delle culture religiose mondiali, se il monoteismo possa essere un minimo comun denominatore per l'unificazione e la coesione pacifica dei popoli, come spiegare l'ingresso del fondamentalismo religioso, se la convivenza tra cristiani e non cristiani sia realmente possibile, come l'elemento religioso entra in gioco in tale mutamento della nostra situazione, e con quali varie conseguenze. Io rispondo che naturalmente il monoteismo, soprattutto un monoteismo costruito artificialmente fuori dalla realtà dei monoteismi concreti, non può essere comun denominatore. Non solo perché un monoteismo astratto dalle realtà vissute non ha vita, quindi non ha forza, ma anche perché il monoteismo copre solo una parte del mondo e delle culture. Abbiamo culture non monoteiste, soprattutto il buddhismo, e abbiamo il fatto che in diverse parti del mondo il laicismo radicale non ha distrutto la religione ma ha terribilmente debilitato la forza delle religioni.
Pensiamo alla Cina, dove il marxismo, così come un tipo di presunto razionalismo ha in ampia misura distrutto la tradizione religiosa. Pensiamo al Giappone, dove il laicismo occidentale ha marginalizzato in gran parte le tradizioni religiose. Quindi abbiamo un panorama culturale e religioso molto diversificato. Abbiamo le religioni monoteiste molto divise tra di loro, con concetti diversi di monoteismo, abbiamo religioni non teiste, abbiamo religioni cosmiche con idee della divinità diverse e abbiamo la presenza del laicismo, una forza presente in tutte le civilizzazioni.
Così, invece della questione se il monoteismo possa essere un minimo comun denominatore, chiediamoci se il laicismo potrebbe essere la forza che crea la convivenza, essendo esso realmente presente in tutte le culture, in tutte le parti del mondo. Mi sembra che si dovrebbe rispondere di no. Non solo perché il laicismo, nonostante tutta la sua presenza, va considerato come un'imposizione non corrispondente alla propria cultura, ma anche perché il laicismo è un'ideologia, lo dico non in un senso negativo, un'ideologia parziale in un duplice senso: è parziale proprio perché vuol rispondere alla sfida morale.
Si limita alla superficie dell'essere umano e lascia aperte tutte le questioni realmente decisive per la vita umana, frammenta la persona umana e non dà le risposte che possono dare una coesione comune. Al contrario, debilita decisamente queste forze, e in diverse parti del mondo si vede come abbia paralizzato le capacità di convivenza. Pensiamo alle eredità lasciate dal marxismo in Russia, ma dobbiamo pensare anche alla realtà africana. Qui l'occidente ha importato la sua visione del mondo, ha armato l'Africa in permanenza e ha distrutto i mores maiorum, cioè le regole morali che erano il fondamento di quelle tribù. Naturalmente, prima della colonizzazione l'Africa non era un paradiso. Era, parlando da cristiano, marcata dal peccato originale, da violenza, problemi, aspetti negativi. Ma c'era una forza fondante, la vita comune, la condivisione della libertà, la definizione dell'essere umano nelle diverse tribù. Questa forza morale con l'illuminismo europeo è stata distrutta.
Ora vediamo gli effetti della duplice importazione di cui parlavo prima. Vediamo la violenza crescente, che comincia a distruggere veramente i popoli, la distruzione morale, con l'epidemia dell'Aids che distrugge intere popolazioni, e la responsabilità di introdurre un razionalismo che non risponde a nessuna delle questioni fondamentali della nostra vita. Questa duplice parzialità è importante anche nel senso che la laicità, rappresentata da Habermas e da tanti altri, non è come tale considerata realmente la risposta della nostra ragione.
Habermas raccontava che a Teheran un professore iraniano gli aveva suggerito di riflettere sul fatto se anche la sua filosofia, il razionalismo, non fosse solo un'idea parziale e non espressione universale della ragione. Non è vero che la razionalità stessa sia la risposta della ragione. E' un'espressione cresciuta su un humus culturale determinato, un'espressione parziale della ragione umana e non semplicemente la luce della nostra ragione. Dobbiamo, insieme con gli altri, imparare una totalità della ragione che ci aiuti a convivere. In questo senso il fondamentalismo religioso è anche una reazione contro la violenza del razionalismo. Personalmente non amo la parola fondamentalismo, perché copre troppe cose totalmente diverse. Ma usiamola, in mancanza di un'altra parola, per definire l'affermazione cieca di se stessi, che diventa poi violenta ed è certo una grande minaccia per noi tutti. Ma dobbiamo vedere che essa reagisce a un pretesto di universalità che in realtà non è verificabile e difende un'altra visione della realtà della vita.
Si difende soprattutto contro il cinismo e l'arroganza che calpesta il rispetto del sacro e calpesta il rispetto delle grandi tradizioni morali cresciute nei secoli, che sono sacre alle nazioni, e che, benché discutibili, garantiscono tuttavia un minimo di convivenza e dovrebbero essere nel dialogo per la convivenza aperte, per aprirsi a una comunione e a una comune definizione della vita. Il monoteismo come tale non è il comune denominatore, ma possiamo noi creare nel laboratorio della nostra ragione una religione in grado di scoprire tutto?
Tantomeno, a maggior ragione, il laicismo può essere una religione universale: è parziale e non risponde alle sfide fondamentali dell'uomo.
Mi sembra che le grandi culture religiose debbano trovarsi in un dialogo interculturale e interreligioso per non perdere i tesori di verità nel relativismo che li distrugge, i grandi tesori della saggezza che sono comuni. Soprattutto mi sembra importante che ci siano persone e comunità che vivono in purezza e con convinzione i grandi tesori della fede.
Per esempio Madre Teresa è divenuta una figura interculturale. Il Signore ha detto una volta : “Chi crede in me diventa una fontana dalla quale si diffonde acqua viva nei deserti del mondo”. Le persone che vivono in modo puro il nucleo fondamentale della religione cristiana, o riescono forse a vivere il modo puro il loro nucleo, sono fontane di vita che aiutano anche gli altri a vivere e ad andare al centro non astrattamente ma con l'esperienza di verità che si verifica nella vita.
Galli della Loggia: Non mi azzardo a entrare nella disquisizione sul confronto tra vari monoteismi. Ma mi colpisce un aspetto che riguarda il rapporto politico tra alcuni monoteismi e altri. Nel mondo attuale, soprattutto in Asia e in Africa, ci sono state e ci sono forti persecuzioni anticristiane. C'è chi ha fatto il calcolo dei martiri cristiani del Novecento e lo ha indicato come il secolo che ha visto il maggior numero di cristiani perseguitati e uccisi, non soltanto per i grandi cataclismi totalitari che lo hanno caratterizzato, ma anche per quanto è accaduto negli ultimi decenni, quando apparentemente le cose erano più tranquille. Piuttosto che la condanna di queste persecuzioni, si sente risuonare l'invito a non drammatizzare, a non usare mai l'espressione “guerra di religione” o, men che mai, “scontro di civiltà”, che immediatamente consegnano, se usate, al politicamente scorretto.
Non so se quelle espressioni siano adeguate a descrivere quanto succede nel mondo, ma mi colpisce la diffusa paura delle parole. Mi fa paura la paura delle parole. Perché è la paura di una cultura politica, e pubblica, che non riesce neanche a pensare che il mondo possa avviarsi verso orizzonti sgradevoli. Invece gli orizzonti sgradevoli esistono, le cose possono andare male, c'insegna la storia. Il male esiste, i cristiani lo sanno, ed è sbagliato non chiamarlo con il suo nome.
E' lo stesso meccanismo che fa trasformare l'antisemitismo in antisionismo. Non si può dire che gli studenti di estrema sinistra di Pisa che hanno impedito al rappresentante dell'ambasciata di Israele di parlare sono antisemiti, bisogna dire che in fondo erano “solo” antisionisti. Ho parlato all'inizio del problema dell'identità. Credo che su questo ci sia un problema anche da parte della Chiesa, che è stata molto decisa nel condurre la battaglia, poi persa, sul riconoscimento delle radici cristiane dell'Europa, dimostrando di voler rivendicare l'identità culturale cristiana del continente. A questo sacrosanto impegno identitario si accompagna però, a mio giudizio, sulla scena del mondo, dove la Chiesa si scontra con altre fedi e altri monoteismi, una forte tendenza a dissociarsi dall'identità europea e occidentale.
La Chiesa è attentissima a mostrare di non voler avere nulla a che fare con quell'identità. Lo capisco, politicamente teme di essere presa per la religione dell'occidente ed è una preoccupazione politica che ovviamente comprendo. Ma mi appare contraddittorio rivendicare da un lato un'identità connessa con l'Europa, dall'altro invece ostentare la massima distanza. C'è il problema dell'autoriconoscimento della propria storia, un problema di conoscenza e autoidentificazione.
Tra i cattolici con cui parlo c'è una, per me sconvolgente, non conoscenza della storia della propria identità religiosa. Ed è vero che l'occidente imperialistico e capitalistico ha distrutto i mores maiorum in Africa, ma la distruzione culturale operata dal cristianesimo non è stata seconda a nessuno. Intendiamoci. Sono un laico che non cerca di imputare peccati storici a nessuno, tantomeno alla Chiesa, ma essa è stata uno dei maggiori vettori di globalizzazione e di modifica delle culture. Se oggi il Sud America è un continente integralmente cristiano, è perché i mores maiorum degli incas o degli aztechi sono stati fatti a pezzi.
Credo che la Chiesa possa trarre vantaggio da un clima di fine della scomunica secolarizzatrice e di attenzione nuova al fatto religioso, da parte di tanti ambienti laici, nella genuina convinzione che la Chiesa e il cristianesimo facciano parte in maniera vitale della nostra cultura. E che questa cultura è complessivamente confrontata da una sfida mondiale, o si avvia a esserlo. E' necessario, da parte della Chiesa, senza cercare sacre alleanze, capire legami e scambi e ascoltare osservazioni e critiche che possano aiutarla a fare il suo mestiere, che comunque ha fatto assai bene nel corso degli ultimi venti secoli.
Ratzinger: Siamo impegnati nella comune ricerca per capire l'enigma uomo e per aiutarlo a vivere in questo tempo, rispondendo alle nostre responsabilità. La Chiesa sostanzialmente non può riconoscersi nella categoria “occidente”. Sarebbe sbagliato storicamente, empiricamente, ideologicamente.
Storicamente, sappiamo che il cristianesimo è nato nell'incrocio di Europa, Asia e Africa, e questo indica anche qualcosa della sua essenza interna. E' nato in un incontro delle culture come capacità, possibilità e sfida di una sintesi delle culture e come possibilità di trascendere le culture in qualcosa che è l'essere umano come tale e che precede e trascende le culture. Ai suoi inizi, l'espansione del cristianesimo andava ugualmente a oriente, verso Cina, India, Persia, Arabia, e a occidente.
Purtroppo, dopo la nascita dell'islam gran parte di questa cristianità orientale è scomparsa. Ma non del tutto, perché esistono elementi di queste cristianità storiche che testimoniano la sua universalità, e anche la cristianità europea si divide in occidentale e orientale. Quindi l'estensione della Chiesa riferita alla nostra cultura è molto grande e si dettaglia in diverse culture.
Empiricamente, non solo abbiamo questa grande eredità storica, ma il cristianesimo è presente, con minoranze di forza spirituale riconosciuta, in tutti i continenti. Sempre più l'asse della cristianità si sposta verso i nuovi continenti, verso Africa, Asia, America latina. L'Europa è ancora una fonte essenziale per lo sviluppo del cristianesimo, tuttavia comincia a emarginarsi proprio con la discussione sulla sua identità.
Teologicamente, perché la Chiesa, per sua essenza, dovrebbe trascendere le culture, essere il fatto che non è legato a una cultura determinata ma aiuta l'esodo dal carcere di una cultura e la comunicazione delle culture.
E' quanto gli Atti degli Apostoli dicono sul giorno di Pentecoste, sulla presenza di tutte le culture conosciute e di tutte le lingue. E' come la carta costituzionale che indica come dovrebbe essere l'essenza di una Chiesa che parla in tutte le lingue, abbraccia, unisce le culture e allo stesso tempo ne rispetta le diverse ricchezze. Non è un comportamento politico dettato dal bisogno di non perdere la simpatia per la Chiesa in Africa, Asia o America latina, ma è un comportamento teologico.
La Chiesa non può riconoscersi semplicemente come occidente, ma deve sempre di nuovo trascendere la sua definizione occidentale e estendersi realmente verso l'universalità, soprattutto trascendendo se stessa verso il divino, che è l'unica realtà che può creare una comunicazione delle culture. E' vero, a volte la Chiesa si comporta in modo politico, ma è anche giusto che avvenga.
Rispetto alla distruzione delle culture precedenti: c'è una differenza sostanziale tra l'espropriazione fatta dall'invasione del laicismo in Africa, dove i mores maiorum sono stati sostituiti con una razionalità che non conosce mores e non conosce risposte in questo campo e quindi li distrugge come irrazionali ma non offre nuove risposte. La visione cristiana ha almeno cercato di non distruggere semplicemente ma di assimilare l'essenza delle religioni che, secondo la nostra convinzione, era in attesa di una risposta. Possiamo osservare che le culture africane erano e sono in attesa di una risposta nuova, così come lo erano le culture mediterranee del tempo di Cristo. Il politeismo greco-romano non poteva sopravvivere, era superato, era divenuto irrazionale, pura tradizione senza cuore e senza ragione, e aspettava una risposta che trasformasse profondamente.
La stessa cosa è avvenuta per i popoli africani, nell'Ottocento e Novecento. Si attendeva una nuova risposta che integrasse le ricchezze al loro interno, trasformandole in una nuova apertura che rispondesse alla nuova situazione storica. La predicazione cristiana ha trovato in tutte quelle religioni una mistica di morte e resurrezione, prefigurazione di quanto insegna la fede cristiana, idee di iniziazione, di sacramentalità. Anche in America latina: pensiamo all'immagine della Madonna di Guadalupe, che è realmente una sintesi interculturale incredibile, che nessuno poteva escogitare.
Così sono state salvate sostanze essenziali, e questi popoli non avrebbero accettato con tanto entusiasmo il messaggio cristiano se non avessero trovato nel Dio sofferente una risposta a quanto si aspettavano, e nella Madonna una risposta al desiderio di una madre. Ci sono state distruzioni, certo, ma oso dire, da cattolico, che le due distruzioni sono state diverse. Ultimo punto, che cosa è l'Europa. E' evidente l'elemento geografico, ma la geografia sola non crea un continente.
Nell'epoca greco-romana i limiti erano molto diversi, e solo per la religione e la cultura comune si è formato questo continente, che non si definisce come tale senza quel fondamento che non è solo una radice storica del passato ma è fonte e condizione di vita, come la radice per un albero. Per ridefinire che cosa sia l'Europa non possiamo fermarci al positivismo, a ciò che siamo, alle leggi e ai diritti definiti. Se vogliamo definire l'Europa in modo che possa vivere e contribuire al mondo di oggi e non vivere “contro” gli altri, ma per se stessa e gli altri essere una fonte di umanizzazione nel mondo, abbiamo bisogno di ridefinire il nostro continente.
Ci sono due cose che a mio avviso dobbiamo difendere come la grande eredità europea che vive e deve vivere. Il primo è la razionalità, che è un dono dell'Europa al mondo ed è anche voluta dal cristianesimo. I Padri della Chiesa hanno visto la preistoria della Chiesa non nelle religioni ma nella filosofia. Loro erano convinti che “semina verbi”, “logos spermatikos” non erano le religioni ma il movimento della ragione cominciato con Socrate, che non si accontentava della tradizione ma sorpassava le tradizioni per trovare ciò che è vero, e trovarlo con la forza della ragione.
Così è stata aperta la porta al cristianesimo, con la critica delle tradizioni, l'esperienza della necessità di uscire dal carcere di una tradizione non più valida, con questo cammino avventuroso, questo cercare di più, cercare con tutte le forze della ragione umana la realtà, da dove veniamo e dove dobbiamo andare. Questa critica delle tradizioni, che ha aperto la questione se il cristianesimo fosse la risposta, era necessaria per aprire le porte al movimento cristiano. La razionalità è voluta dalla fede. San Pietro dice nella sua prima lettera: “Siate sempre pronti a dare apologia per il logos della vostra speranza”. Cioè, la vostra speranza, che è identica alla fede, porta con sé un logos e questo logos può divenire una apologia, una risposta che può essere comunicata agli altri. Non vogliamo creare un impero di potere, ma abbiamo una cosa comunicabile alla quale va incontro un'attesa della nostra ragione, è comunicabile perché appartiene alla nostra comune natura umana e c'è un dovere di comunicare da parte di chi ha trovato un tesoro di verità e amore.
La razionalità era quindi postulato e condizione del cristianesimo, e rimane un'eredità europea per confrontarci, in modo pacifico e positivo, sia con l'islam sia con le grandi religioni asiatiche. Secondo punto: questa razionalità diventa pericolosa e distruttiva per la creatura umana se diventa positivista e riduce i grandi valori del nostro essere alla soggettività, e diventa così un'amputazione della creatura umana. Non vogliamo imporre a nessuno una fede che si può accettare solo liberamente, ma come forza vivificatrice della razionalità dell'Europa essa appartiene alla nostra identità.
E' stato detto che non dobbiamo parlare di Dio nella Costituzione europea perché non dobbiamo offendere i musulmani e i fedeli di altre religioni. E' vero il contrario.
Ciò che offende i musulmani e i fedeli di altre religioni non è parlare di Dio o delle nostre radici cristiane, ma piuttosto il disprezzo di Dio e del sacro, che ci separa dalle altre culture e non crea una possibilità d'incontro ma esprime l'arroganza di una ragione diminuita, ridotta, che provoca reazioni fondamentaliste.
L'Europa, sottolineo, deve difendere la razionalità e su questo punto anche noi credenti dobbiamo essere grati al contributo dei laici, dell'illuminismo, che deve rimanere una spina nella nostra carne. Ma anche i laici devono accettare la spina nella loro carne, cioè la forza fondante della religione cristiana per l'Europa, non solo ieri ma anche oggi e domani.
[L’articolo è tratto da “Il Foglio”, 27 e 28-10-2004]
© Copyright Zenit