sabato 27 novembre 2010

Card. Ratzinger: Retrospettivamente appare assai significativo che Paolo VI abbia pubblicato proprio nell’anno fatale del 1968 due grandi documenti, che sono una testimonianza della sua capacità di comprensione e della fermezza della sua azione a partire dalla fede. Vi è innanzitutto la Professione di fede...vi è poi l'enciclica Humanae vitae (1995)

Riceviamo e con grande piacere e gratitudine pubblichiamo il testo integrale dell'intervento del card. Ratzinger gia' inserito parzialmente su questo blog (clicca qui).
Grazie per questa opportunita'
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R.

Paolo VI avvocato della persona umana

Joseph Ratzinger

Con la convocazione e l’apertura del concilio Vaticano II, Giovanni XXIII aveva lasciato in eredità al suo successore Paolo VI il compito di una riforma generale della Chiesa.
Quando il concilio ebbe inizio, la fase della ricostruzione postbellica volgeva alla fine.
Le distruzioni, che la dittatura anticristiana di Hitler aveva lasciato, parlavano un linguaggio eloquente.
Esse avevano impresso un nuovo orientamento ai fondamenti cristiani dell’Europa e suscitato una volontà comune di risvegliare a nuova vita questo continente tormentato e smembrato. Nella necessità dell’ora era nata un’intesa nel pensiero e nell’azione, che si dissolse nel momento in cui fu completata nell’essenziale l’opera di ricostruzione.
Lo sforzo di rinnovamento della Chiesa non può essere compreso prescindendo da questo contesto sociale e dai suoi cambiamenti.
Nella prima fase postbellica la Chiesa appariva come il baluardo dell’umanità nella coscienza di coloro che avevano sperimentato il dominio della disumanità. Era la realtà sicura che aveva tenuto e aveva dato buona prova di sé. Pertanto essa poteva uscire dal ghetto in cui era stata cacciata nel diciannovesimo secolo: il liberalismo e l’idea da esso ispirata degli stati nazionali non erano più – così in ogni caso sembrava – in contraddizione con la Chiesa.
Lo spirito della modernità e la Chiesa non si guardavano più con ostilità, ma camminavano l’uno verso l’altro.
Il Vaticano II era cominciato in questo clima ottimistico della riconciliazione finalmente possibile fra epoca moderna e fede; la volontà di riforma dei suoi padri ne era plasmata. Ma già durante il concilio questo contesto sociale cominciò a mutarsi. L’epoca moderna non continuò a rimanere nella specifica situazione degli anni del dopoguerra.
L’anno 1968 fu il segnale della svolta: un mondo veramente nuovo e l’uomo nuovo dovevano essere generati dalle forze proprie della ragione e della potenza umana.
Gli avvenimenti del 1968 significarono per così dire una rivolta dell’epoca moderna contro se stessa: proprio la società liberale, organizzata in modo democratico e borghese, appariva ora come il carcere dell’insensatezza e del vuoto, che doveva essere infranto per trovare la libertà vera, assoluta e la vita piena.
La riconciliazione fra epoca moderna e fede, che in qualche modo era stata un’idea conduttrice del Vaticano II, era così messa in discussione nella sua forma concreta. Quell’epoca moderna, con la quale si era cominciato a riconciliarsi, ora non doveva più esserci.
La rivoluzione iniziatasi si rivolgeva contro di essa, per realizzare la vera novità, il progresso definitivo. Questo dramma adombrò necessariamente la recezione del concilio e suscitò le note posizioni contrapposte. Chi non aveva pensato a una riforma in modo deciso a partire dal contenuto della fede e dei suoi criteri riteneva anche ora di non poter restare in ritardo rispetto al nuovo e poteva facilmente perdere il terreno sotto i piedi.
Vi erano però anche gli altri, che ora dichiaravano come fallita l’impostazione stessa del concilio e nelle resistenze contro di esso ritenevano di vedere la salvezza. Guidare la navigazione fra Scilla e Cariddi fu il difficile compito toccato a Paolo VI.
In uno sforzo quasi sovrumano egli ha lottato per restare fedele alla vitalità e al dinamismo interiore della fede sottolineati dal concilio: la fede non è mai formula congelata del passato, ma significa sempre il vero progresso. Essa infatti va incontro a Cristo, che non è solo l’Alfa, ma anche l’Omega della storia. «Le opere di Cristo non vanno all’indietro, ma in avanti», ha detto una volta san Bonaventura.
La fede è sempre l’autentica novità e ha qualcosa da dire in ogni tempo; in ogni epoca può parlare nella sua lingua. Il miracolo di Pentecoste non implica solo la possibilità sincronica delle molte lingue e culture di un periodo, ma anche il miracolo diacronico, la forza di parlare nelle lingue di ogni presente e futuro. Ma in tale sviluppo vivente rimane sempre l’unica fede nell’unico Signore.
Perciò il Papa considerò come suo compito quello di difendere e di mettere in luce questa entità della fede invece di dissolvere il messaggio in un semplice contrappunto o ripetizione delle ideologie che vengono e che vanno. Nella confusione delle dittature essa aveva dato buona prova di sé proprio per la sua non disponibilità a lasciarsi corrompere: si deve obbedire a Dio piuttosto che agli uomini. Se molti classificano il pontificato di Papa Montini come contraddittorio, come dialettica irrisolta fra progresso e tradizione, essi trascurano ciò che più lo caratterizza, quest’unità interiore della sua azione, che proviene dall’immutabilità e dal dinamismo dell’amore a Cristo.
Retrospettivamente appare assai significativo che Paolo VI abbia pubblicato proprio nell’anno fatale del 1968 due grandi documenti, che sono una testimonianza della sua capacità di comprensione e della fermezza della sua azione a partire dalla fede. Vi è innanzitutto la Professione di fede, che egli ha consegnato alla Chiesa il 30 giugno 1968 a conclusione dell’anno della fede da lui proclamato; vi è poi l’enciclica Humanae vitae del 25 luglio dello stesso anno.
Merita rileggere questi documenti 25 anni dopo.
Essi corrispondono a un determinato momento e alle sue sfide, ma vanno molto al di là del momento storico e appartengono al patrimonio permanente della Chiesa, anzi, se li rimeditiamo adesso – dopo tutto quel che è avvenuto – notiamo quanto essi siano attuali e adatti al momento presente.
Entrambi i testi parlano da se stessi, non hanno bisogno di ampi commentari. Vorrei solo proporre un paio di indicazioni.
Il Credo del popolo di Dio mostra molto chiaramente i due aspetti essenziali nell’opera del Papa, dei quali appunto si parlava. È una nuova professione di fede, che va oltre ai testi esistenti di professione di fede dell’antichità cristiana, i quali erano determinati essenzialmente dalla prospettiva battesimale.
Sintetizza la ricchezza dell’intera storia della fede della Chiesa e la dispone in modo organico in un insieme unitario. Lo si potrebbe chiamare un sommario catechetico, nel quale è contenuto in modo sintetico tutto ciò che la catechesi cristiana deve sviluppare. Allo stesso tempo questa nuova professione di fede è un atto di fedeltà: la fisionomia interiore del cattolico, ciò che è eternamente valido e immutabile della fede vi è qui espresso. «Su questa pietra io fonderò la mia Chiesa»: il successore di Pietro ci mostra quale è il terreno sicuro sul quale egli si appoggia e sul quale tutti noi possiamo appoggiarci.
Alcune osservazioni sul contenuto. Come tutte le professioni di fede ecclesiali, così anche questa è innanzitutto e prima di tutto una confessione del Dio vivente, del Creatore dell’invisibile e del visibile, del «Creatore di ogni anima umana». Con questa
concretizzazione dell’“invisibile” la confessione diventa molto personale: Dio ha creato anche me e nei suoi confronti, in quanto è il mio Creatore, io mi trovo in una relazione immediata.
Il Dio vivente, che si rivela a noi sotto il nome dell’“essere” e dell’“amore”, è trinitario nell’unità di Padre, Figlio e Spirito Santo. Anche qui segue subito di nuovo l’orientamento in senso personale: egli ci ha creato per partecipare alla sua propria vita, all’essere e all’amore nella condivisione della sua comunione di vita trinitaria. Il collegamento della prospettiva “essenzialistica” con quella “esistenzialistica”, che ho qui accennato per due punti centrali, resta un criterio ispiratore fondamentale di tutto il testo.
Così, ad esempio, quando nella cristologia, che si esprime in tutta la sua altezza e grandezza, di nuovo segue come di per sé il passaggio alla nostra vita: egli, che è grazia e verità, con il suo comandamento nuovo ci ha insegnato l’amore; ci ha insegnato nel Discorso della montagna la via delle Beatitudini.
Preziosa è anche la sintesi della mariologia, che offre la professione di fede, la quale, a partire da Maria, si introduce nella storia della salvezza.
La confessione della Chiesa, che si sviluppa successivamente, è una confessione del suo pellegrinaggio storico, un sì alla Chiesa, che «soffre e fa penitenza», alla quale però è anche dato il potere di guarire i suoi figli. Molto accuratamente è formulata anche la confessione della Chiesa docente, che a sua volta viene considerata a partire dalle sue radici storiche: come figlia di Abramo, come amorevole custode delle Scritture d’Israele, i cui patriarchi e profeti essa ascolta in queste Scritture. Il Credo è di chiarezza cristallina nella sua confessione della Chiesa cattolica, che è fondata stabilmente sulla roccia di Pietro: «essa è il corpo mistico di Cristo». Paolo VI non teme di ripetere questa parola, spesso criticata, del suo predecessore Pio XII, che non fu affatto svalutata dal concilio. Ciò non gli impedisce in alcun modo di riprendere altrettanto chiaramente l’eredità ecumenica del Vaticano II, il riconoscimento dei numerosi elementi di verità e di santificazione al di fuori dell’organismo visibile della Chiesa di Cristo.
Così il paragrafo ecclesiologico si conclude con una confessione della speranza nella ricostituzione della piena comunione fra coloroche ora sono separati.
Con il brano sull’Eucaristia Paolo VI il Papa della riforma liturgica, ha allo stesso tempo offerto una chiave teologica per la sua retta comprensione. Sottolinea qui due punti chiave. Rileva innanzitutto che la santa Messa celebrata dal Sacerdote rende presente sacramentalmente il sacrificio del Calvario.
In secondo luogo si dedica estesamente alla presenza vera, reale e sostanziale del Signore, nei doni del pane e del vino convertiti nel suo corpo e nel suo sangue. Questa presenza fondata «nella realtà obiettiva, indipendentemente dal nostro spirito», è frutto di una reale conversione, che dalla Chiesa è chiamata «in maniera assai appropriata transustanziazione». Il Papa sottolinea la permanenza della presenza del Signore sotto la specie del pane e del vino nel
tabernacolo, che così è «il cuore vivente di ciascuna delle nostre chiese». E di conseguenza è «per noi un dovere dolcissimo onorare e adorare nell’Ostia santa, che vedono i nostri occhi, il Verbo Incarnato». Anche qui confluiscono come spontaneamente la dimensione essenzialistica e quella esistenzialistica, la confessione del dono del Signore e la risposta del cuore orante.
Il Credo si conclude con la testimonianza della speranza nel Regno che viene e che è già cominciato: la fede apre al cuore l’orizzonte della speranza, che è più grande e più vicino delle vuote promesse dell’utopia; di una speranza, che opera giustizia e amore, proprio perché non nasce nell’opera propria dell’uomo. Così questa professione di fede è determinata dalla solida oggettività dei grandi doni di Dio, ma proprio per questo è una professione viva, che coinvolge l’uomo nel dinamismo dell’amore trinitario.
Veniamo ora al secondo grande documento dell’anno 1968, all’enciclica Humanae vitae. Raramente un testo della storia recente del Magistero è divenuto tanto un segno di contraddizione come questa enciclica, che Paolo VI ha scritto a partire da una decisione di coscienza profondamente sofferta. Due obiezioni fondamentali vengono sollevate contro il testo, una procedurale e una contenutistica. Dal punto di vista della procedura si rileva che il Papa avrebbe deciso contro la maggioranza della commissione di studio appositamente costituita e si sarebbe collocato in tal modo su di un terreno poco stabile; dal punto di vista del contenuto viene rimproverato all’enciclica che la sua affermazione centrale riposerebbe su di un concetto di natura superato, essa avrebbe mescolato biologia ed etica.
Il problema del rapporto fra maggioranza della commissione e decisione definitiva del Papa tocca questioni di fondo, che vanno molto al di là della problematica dell’enciclica Humanae vitae. Qui si dovrebbero porre problemi come i seguenti: quando una maggioranza è veramente rappresentativa? Chi deve rappresentare?
Come può farlo? Senza che il problema possa venire qui discusso in tutta la sua ampiezza, possiamo al riguardo dire quanto segue: una commissione, che dà un parere sulla dottrina della Chiesa, non deve in ogni caso rappresentare la maggioranza dei pareri dominanti, ma l’esigenza interiore della fede. La verità non viene decisa a maggioranza; davanti alla questione della verità ha termine il principio democratico. Nella Chiesa inoltre non conta mai solo la società attualmente presente. In essa i morti non sono morti, perché come comunione dei santi essa va al
di là dei confini del tempo presente. Il passato non è passato, e il futuro proprio per questo è già presente. Detto anche con altre parole: nella Chiesa non vi può essere nessuna maggioranza contro i santi, contro i grandi testimoni della fede che caratterizzano tutta la storia. Essi appartengono sempre al presente, e la loro voce non può essere messa in minoranza.
La responsabilità nei confronti della continuità della dottrina ecclesiale aveva perciò giustamente per Paolo VI un’importanza maggiore di una commissione di sessanta membri, il cui voto era da tenere in considerazione, ma non poteva costituire l’ultima istanza di fronte al peso della tradizione.
Chi legge serenamente l’enciclica, troverà che essa non è affatto impregnata di naturalismo o biologismo, ma è preoccupata di un autentico amore umano, di un amore, che è spirituale e fisico in quella inseparabilità di spirito e corpo, che caratterizza l’essere umano (in particolare il n. 9). Poiché l’amore è umano, per questo motivo ha a che fare con la libertà dell’uomo, e pertanto deve essere amore, che ama l’altro non per me, ma per se stesso.
Per questo fedeltà, unicità e fecondità sono ancorate nella essenza interiore di questo amore. A Paolo VI sta a cuore difendere la dignità umana dell’amore umano e coniugale. Perciò la libertà – che nella sua essenza è libertà moralmente ordinata – è al centro delle sue riflessioni: il Papa ritiene la persona umana capace di una grande cosa: capace di fedeltà e capace di rinuncia.
Per questo motivo egli non vuole che il problema della fecondità responsabile – il controllo delle nascite – sia regolato in modo meccanico, ma che venga risolto in modo umano, cioè morale, a partire dallo spirito dell’amore e della sua libertà stessa. Se si volesse fare un rimprovero al Papa, non potrebbe essere quello del naturalismo, ma al massimo quello che egli ha un’idea troppo grande dell’essere umano, della capacità della sua libertà nell’ambito del rapporto spirito-corpo. Chi ha conosciuto anche solo globalmente la figura di Paolo VI, sa che non gli mancavano la sensibilità pastorale e la conoscenza dei problemi delle singole persone. Intenzione dell’enciclica non è quella di imporre pesi; il Papa si sente piuttosto impegnato a difendere la dignità e la libertà dell’uomo contro una visione deterministica e materialistica.
Egli parla nella prospettiva dell’eternità, nella sua responsabilità davanti alla totalità della storia. Sotto questo punto di vista egli non poteva parlare altrimenti, e a partire da questa prospettiva si deve leggere l’enciclica: come arringa in favore dell’umanità dell’amore e in favore della dignità della sua libertà morale.
Qui si manifesta come Paolo VI anche in questo punto, proprio in questo punto, parli come avvocato della persona umana; come la fede, che lo ispirava, difende la persona umana, anche là ove essa la sprona.

Roma, Pasqua 1995

(Tratto da Custodi e interpreti della vita. Attualità dell’enciclica Humanae vitae a cura di Lucetta Scaraffia, Lateran University Press 2010)