In questo blog è possibile trovare molti testi del teologo, del professore e del cardinale Joseph Ratzinger
domenica 26 luglio 2009
Card. Ratzinger: "L’Ascensione è segno della benedizione. Le mani di Cristo sono diventate il tetto che ci copre" (Da "Immagini di speranza")
(Giotto, "Ascensione")
Grazie alla nostra infaticabile Gemma, possiamo leggere questo brano dell'allora cardinale Ratzinger dedicato all'Ascensione di Nostro Signore, una festa che purtroppo si va perdendo.
Essa si celebra il giovedi' che segue la quinta domenica dopo Pasqua (quaranta giorni dopo la Santa Pasqua). In molti Paesi, quindi, la Festa dell'Ascensione si e' celebrata giovedi' 1° maggio, in altri, come l'Italia, essa cadra' domani essendo stata posticipata alla domenica successiva.
Raffaella
Da "Immagini di speranza"
Ascensione
Nel racconto dell’ascensione di Cristo l’evangelista Luca ha inserito un’osservazione che continuo a trovare sorprendente, per quanto io abbia cercato più volte di chiarirne il significato teologico. Infatti Luca nel suo vangelo dice che i discepoli erano pieni di grande gioia quando dal monte degli ulivi scesero verso Gerusalemme. Secondo la nostra normale psicologia qui c’è davvero qualcosa che non va:
l’Ascensione del Signore al cielo era l’ultima apparizione del Risorto; i discepoli sapevano che non avrebbero più rivisto il Signore in questo mondo.
Certo, questo congedo non è paragonabile a quello del venerdì santo. Allora, infatti, Gesù sembrava aver fallito e tutte le speranze fino ad allora riposte in lui dovevano apparire ora come un grande abbaglio. Al contrario, il congedo da lui il quarantesimo giorno dopo la risurrezione, reca in sé qualcosa di trionfale e rassicurante: questa volta Gesù non è infatti consegnato alla morte, ma entra fino in fondo nella vita. Non è sconfitto, ma Dio gli ha reso giustizia.
Per questo c’è motivo di gioia. Ma quando l’intelletto e la volontà gioiscono, non è detto che il sentimento debba fare lo stesso. Pur comprendendo la vittoria di Gesù, si può soffrire per la perdita della sua vicinanza umana. La paura dei discepoli di essere abbandonati potrebbe essere cresciuta, tanto più all’idea del compito smisurato che si prospettava
loro: uscire verso l’ignoto e rendere testimonianza a Gesù davanti a un mondo che li vedeva solo come gente di poco conto venuta dalla Giudea, per di più emarginata dal suo stesso popolo.
Ma proprio qui si collocano, inamovibili, le parole della grande gioia di coloro che tornavano a casa. Non riusciremo mai a chiarire queste parole, finchè non capiremo fino in fondo la letizia dei martiri: il canto di un Massimiliano Kolbe nel bunker della fame; il gioioso inno di lode a Dio, che Policarpo intona sul rogo, e molto altro ancora. Nei santi dell’amore del prossimo troviamo la stessa grande gioia proprio nei momenti in cui essi rendono agli ammalati e ai sofferenti i servizi più difficili; e grazie a Dio non si tratta solo di storie passate. Così, da simili esperienze possiamo intuire qualcosa di come la gioia della vittoria di Cristo coinvolga non solo l’intelletto, ma possa comunicarsi anche al cuore e giungere in tal modo alla sua pienezza. Solo quando qualcosa di simile avviene anche in noi stessi, possiamo comprendere la festa dell’Ascensione di Cristo. Quello che è accaduto qui è la vittoria della definitività della redenzione nel cuore dell’uomo, così che la conoscenza diventa gioia.
Come siano andate le cose nei particolari non lo sappiamo. Ma la Sacra Scrittura ci dà comunque dei punti di riferimento. Luca ci racconta per esempio che Gesù, nei quaranta giorni dopo la risurrezione, si mostrò agli occhi dei discepoli e si fece udire da loro, spiegando le cose del regno di Dio. Aggiunge poi una terza espressione, con la quale documenta la convivenza e la comunione di quei giorni, un’espressione un po’ strana, che la traduzione ecumenica rende con “pasto in comune”. Ma il testo alla lettera dice che il Signore aveva “mangiato il sale con loro”. Il sale era il preziosissimo dono con cui si accoglievano gli ospiti e, quindi, espressione della vera ospitalità. Per questo si dovrebbe piuttosto tradurre: egli li accolse nella sua ospitalità, in un’ospitalità che non è solo un evento esteriore, ma che significa condivisione della propria vita. Ma il sale è anche un simbolo di passione; è condimento ed è mezzo di conservazione che agisce contro la corruzione, contro la morte. Malgrado tutto ciò che quelle parole enigmatiche possono voler dire, l’intenzione è in qualche modo chiara: Gesù aveva reso percepibile il mistero alla sensibilità e al cuore dei discepoli. Non era più solo un’idea, si era appena rivelato alla loro consapevolezza razionale, eppure essi erano toccati fin nella loro fisicità dalla sua sostanza. Essi non conoscevano più solo dall’esterno Gesù e il suo messaggio, esso viveva dentro di loro.
C’è un’altra annotazione dell’evangelista che mi pare importante. Egli afferma che Gesù aprì le braccia e li benedisse. Mentre li benediceva, scomparve dinanzi a loro. La sua ultima immagine sono le sue braccia aperte, i gesti della benedizione. L’icona dell’Ascensione dell’Oriente cristiano, che nel suo nucleo risale fino alle prime forme di arte cristiana, ha fatto di questa scena il vero centro di tutto.
L’Ascensione è segno della benedizione. Le mani di Cristo sono diventate il tetto che ci copre e, insieme, la forza che apre la porta del mondo verso l’alto. E’ benedicendoli che egli se ne va, ma vale anche il contrario: benedicendoli egli resta. E’ questo, da allora, il suo modo di rapportarsi con il mondo e con ciascuno di noi: egli benedice, è divenuto lui stesso benedizione per noi. Proprio queste parole potrebbero allora cogliere nel modo più semplice il centro di quell’evento e chiarire la strana contraddizione di quel congedo che è gioia piena:
l’evento che i discepoli avevano sperimentato era stato benedizione, ed essi se ne andarono come persone che erano state benedette, non abbandonate.
Sapevano di essere stati benedetti per sempre e di trovarsi sotto quelle mani benedicenti, dovunque fossero andati.
Letta in questo senso, l’annotazione di san Luca viene a trovarsi molto vicina ad alcune frasi dei discorsi d’addio di Gesù, riferiti da Giovanni. Colpisce anzitutto il ruolo riservato alla gioia. In primo luogo i discepoli dovevano passare attraverso l’esperienza della tristezza; si, l’esperienza della perdita, del venir meno della comunità, è necessaria perché essi possano arrivare alla gioia. “Non vi lascio orfani, io vengo da voi”, dice Gesù (Gv 14,18), e con questo venire si intende proprio quella nuova esperienza della vicinanza che Luca descrive con il termine “benedizione”. Infatti questa frase del discorso d’addio corrisponde all’altra: “Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Intercessore, perché rimanga con voi per sempre” (Cv 14,16). La teologia della Chiesa d’Oriente ha posto sullo stesso piano la preghiera del Signore per un altro Intercessore e la benedizione nel giorno dell’Ascensione: le mani benedicenti sono anche mani offerenti, mani oranti.
Esse sono sempre elevate dinanzi al Padre e lo pregano che non lasci mai più soli i suoi, che il Consolatore rimanga sempre con loro. Se leggiamo insieme Luca e Giovanni, possiamo dire: i discepoli, guardando Gesù benedicente e orante, hanno capito che era proprio vero: “Non vi lascio orfani, io vengo da voi”. Hanno avuto la certezza definitiva: “Io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Hanno saputo che Cristo viene ora e per sempre come benedizione; che egli, per così dire, continua a mangiare il sale con loro, che essi erano e sarebbero rimasti benedetti in mezzo a tutte le tribolazioni.
I testi liturgici della Chiesa d’Oriente mettono in evidenza anche un altro aspetto di quell’evento. Vi si legge: “ Il Signore è risorto, per risollevare l’immagine decaduta di Adamo e per mandarci lo Spirito che santifica le nostre anime”. L’Ascensione di Cristo rivela anche l’aspetto a prima vista nascosto dell’Ecce homo. Pilato ha mostrato alla folla radunata il Gesù reietto e abbattuto, rinviando in tal modo al volto oltraggiato e umiliato dell’uomo come tale.
“Guardate, questo è l’uomo”, aveva detto. Cinema e teatro contemporanei continuano a metterci davanti – talvolta con compassione, più spesso cinicamente e molte volte anche con il piacere masochistico dell’autodistruzione – l’uomo umiliato e sconfitto, in tutte le forme di orrore: questo è l’uomo, continuano a dirci. L’evoluzionismo ci riporta al passato, ci mostra il risultato delle sue ricerche, l’argilla da cui è venuto l’uomo, e ci martella: questo è l’uomo.
Si, l’immagine di Adamo è decaduta; giace nella sporcizia e continuerà ad essere sporcata. Ma l’Ascensione di Cristo dice ai discepoli , dice a noi:
il gesto di Pilato è solo una mezza verità, e ancor meno di questo. Cristo non è solo il volto insanguinato e trafitto; egli è il Signore di tutto il mondo. Ma la sua signoria non umilia la terra, le restituisce il suo splendore, la possibilità di parlare della bellezza e della potenza di Dio. Cristo ha risollevato l’immagine di Adamo: voi non siete solo sporcizia; vi innalzate al disopra di tutte le dimensioni cosmiche fino al cuore di Dio. L’Ascensione di Cristo è la riabilitazione dell’uomo: non l’essere colpiti abbassa e umilia, ma il colpire; non l’essere oggetto di sputi abbassa e umilia , ma lo sputare addosso a qualcuno; non chi è offeso, ma chi offende è disonorato; non è la superbia che innalza l’uomo, ma l’umiltà; non è l’autoglorificazione a renderlo grande, ma la comunione con Dio, di cui egli è capace.
L’Ascensione di Cristo non è uno spettacolo per i discepoli, ma un’evento in cui essi stessi sono inseriti. E’ un sursum corda, un movimento verso l’alto, a cui tutti veniamo chiamati. Ci dice che l’uomo può vivere rivolto verso l’alto, che è capace dell’altezza. Di più: l’altezza che sola corrisponde alla misura dell’uomo è l’altezza di Dio stesso.
A questa altezza l’uomo può vivere e solo da questa altezza possiamo comprenderlo davvero. L’immagine dell’uomo è elevata, ma noi abbiamo la libertà di tirarla verso il basso e strapparla oppure di lasciarci elevare, innalzare verso l’alto. Non si comprende l’uomo se ci si chiede solo da dove viene.
Lo si comprende solo se ci si chiede anche dove può andare. Solo dalla sua altezza risulta chiara davvero la sua essenza. E solo quando questa altezza viene percepita, nasce un rispetto incondizionato verso l’uomo, un rispetto che lo considera sacro anche in tutte le sue profonde umiliazioni. Solo partendo da qui si può imparare ad amare l’umanità in sé e negli altri. Per questo la parola più importante nei riguardi dell’uomo non può essere l’accusa. Certo, anche l’accusa è necessaria, perché la colpa sia riconosciuta come colpa e sia distinta dalla vera essenza dell’uomo. Ma l’accusa da sola non basta: se la si isola in se stessa, diventa negazione e per ciò stesso uno strumento di devastazione dell’uomo.
Per questo non è neppure giusto dire, come qualche volta si fa oggi, che la fede dovrebbe tenere desta la memoria sovversiva dell’umanità, che essa deve impedire di venire a compromesso con l’ ingiustizia di questo mondo. E’ vero comunque che la fede ci insegna una memoria, la memoria della Croce e della risurrezione di Cristo. Ma questa memoria non è sovversiva. Ci ricorda sicuramente che l’immagine di Adamo è decaduta, ma ci ricorda soprattutto che questa immagine è stata risollevata e che, anche se decaduta, resta pur sempre l’immagine della creatura amata da Dio. La fede ci impedisce di dimenticare; desta in noi l’autentica, sconvolgente memoria dell’origine: del fatto che noi veniamo da Dio; e vi aggiunge la nuova memoria che si esprime nella festa dell’Ascensione di Cristo: la memoria che il luogo autenticamente appropriato della nostra esistenza è Dio stesso e che è da lì che dobbiamo guardare l’uomo. La memoria della fede è in questo senso pienamente positiva: libera la dimensione ultima positiva dell’uomo. Riconoscere questo è una difesa ben più efficace contro ogni riduzione dell’uomo rispetto alla semplice memoria delle negazioni che, alla fine, può lasciare dietro di sé solo il disprezzo per l’uomo. L’antidoto più efficace contro la rovina dell’uomo risiede nella memoria della sua grandezza, non in quella della sua miseria. L’Ascensione di Cristo risveglia in noi la memoria della grandezza. Essa ci rende immuni rispetto al falso moralismo che getta discredito sull’uomo.
Essa ci insegna il rispetto per l’umanità e ci restituisce la gioia di essere uomini.
Se si pensa a tutto questo, svanisce da sé l’idea che l’Ascensione di Cristo sia la canonizzazione di un’immagine del mondo ormai superata. Il problema centrale è infatti la grandezza dell’umanità, non i piani del cosmo. Si tratta di Dio e dell’uomo, dell’autentica altezza dell’umanità, non del posto delle stelle. Questa visione non deve però ingannarci, inducendoci a pensare il cristianesimo del tutto fuori e del mondo e a fare della fede una semplice questione di sentimento. C’è sempre anche un riferimento giusto, pienamente sensato della fede all’insieme del mondo creato, per la quale, tra l’altro, la vecchia immagine del mondo può comunque servire da strumento di orientamento. Non è tanto facile da spiegare, dato che la nostra capacità immaginativa ha subito un cambiamento dovuto all’utilizzo tecnico del mondo.
Possiamo forse trovare una possibile via d’accesso se pensiamo ancora una volta al tipo classico d’icona con cui la Chiesa d’Oriente ha rappresentato l’Ascensione di Cristo. In esse si percepisce che lo scenario in cui si svolge l’evento è quello del monte degli Ulivi grazie ad alcuni rami d’ulivo che si irradiano dalla figura che separa cielo e terra. Con ciò è subito revocata anche la notte del Getsemani :il luogo dell’angoscia diventa il luogo della sicurezza fiduciosa. Proprio là dove è stato vissuto da Cristo nel suo intimo il dramma della morte e della sua umiliazione si compie il rinnovamento dell’uomo.
Proprio là comincia la sua vera ascensione. Ma le foglie d’ulivo hanno a loro volta qualcosa da dire:
esse esprimono la bontà della creazione, la ricchezza dei suoi doni, l’unità tra la creazione e l’uomo, in cui ambedue sono compresi a partire dal Creatore. Essi sono segni della pace, per questo divengono qui segni di una liturgia cosmica. La storia di Gesù Cristo non è solo un avvenimento capitato tra gli uomini su un povero pianeta smarrito nella vastità e nel silenzio dell’universo. E’ un evento che abbraccia cielo e terra, la realtà tutta intera. Quando noi celebriamo la liturgia, non siamo di fronte a una sorta di riunione tra parenti in cui ci concediamo a vicenda l’appoggio di una limitata comunione. La liturgia cristiana ha una dimensione cosmica: ci uniamo alla lode della creazione e, nel contempo, le prestiamo la nostra voce.
In conclusione, desidero aggiungere ancora un pensiero, questa volta tutto dalla tradizione figurata dell’Occidente. Tutti voi conoscete sicuramente quelle immagini tanto squisitamente naif in cui sopra le teste degli apostoli rimangono visibili solo i piedi di Gesù che sporgono ancora dalla nuvola circostante.
A sua volta la nuvola si presenta esternamente come un cerchio scuro, ma all’interno è di una luminosità fulgida. Mi sembra che dietro l’apparente ingenuità di questa rappresentazione si celi qualcosa di molto profondo. Tutto quello che noi vediamo di Cristo nel tempo della storia sono i suoi piedi e la nube. I suoi
piedi: che cosa significa ciò? Torna alla mente una strana espressione del vangelo di Matteo, tratta dal racconto della risurrezione, in cui si dice che le donne si strinsero ai piedi di Gesù e lo adorarono.
In quanto risorto egli supera e sovrasta qualsiasi ordine di grandezza terrena: solo i suoi piedi possiamo ancora toccarli e li tocchiamo nell’adorazione. Qui si potrebbe riflettere sul fatto che, mettendosi sulle sue tracce, seguiamo i suoi passi nella preghiera. Pregando andiamo verso di lui, pregando arriviamo a toccarlo, anche se in questo mondo ciò avviene sempre da lontano, sempre dal basso, sempre e solo sulle tracce del suo cammino terreno.
Nel contempo diventa chiaro che non possiamo trovare le tracce dei piedi di Cristo se guardiamo solo in basso, se ci limitiamo a misurare le impronte e intendiamo la fede come qualcosa di tangibile. Il Signore è movimento verso l’alto e possiamo riconoscerlo solo se anche noi ci mettiamo in movimento, guardando in alto e salendo.
Dalla lettura dei Padri della Chiesa ci viene ancora un importante suggerimento: la vera elevazione dell’uomo avviene quando, nel donarsi umilmente agli altri, impara ad abbassarsi totalmente, fino a terra, fino al gesto del lavare i piedi. Proprio questa umiltà che sa abbassarsi porta l’uomo verso l’alto; proprio questo modo di andare verso l’alto vuole farci imparare l’Ascensione.
L’immagine delle nuvole va nella stessa direzione. Ci ricorda quella nuvola che precedeva Israele nella sua peregrinazione attraverso il deserto: di giorno era nuvola, di notte una colonna di fuoco.
Anche “nuvola” è un’espressione che indica un movimento, una realtà di cui noi non possiamo impadronirci e che non possiamo fissare; essa rappresenta un segno di orientamento che ci aiuta solo se le andiamo dietro, rappresenta il Signore, che è sempre davanti a noi.
Essa è insieme nascondimento e presenza: per questo è divenuta immagine sensibile dei segni sacramentali in cui il Signore ci precede, in cui egli si nasconde e, insieme, si lascia toccare.
Torniamo ancora una volta al nostro punto di partenza.
L’Ascensione è stata motivo di gioia per i discepoli.
Essi sapevano che non sarebbero stati più soli.
Sapevano di essere benedetti. E’ proprio questa la consapevolezza che la Chiesa vuole imprimere dentro di noi nei quaranta giorni dopo Pasqua. Essa desidera che anche per noi la consapevolezza diventi un sapere non solo della ragione ma del cuore, perché anche in noi possa scaturire la grande gioia che ai discepoli non poteva più essere tolta. Perché sorga questa sapienza del cuore è necessario l’incontro, un addentrarci nel discorso con il Signore, una profonda familiarità con lui, che la Scrittura descrive con l’espressione del “mangiare insieme il sale”. A questa apertura interiore ci invita la festa dell’Ascensione di Cristo. Quanto più ci riesce, tanto più comprenderemo la grande gioia scaturita nel giorno di quell’apparente congedo che, in verità, è stato l’inizio di una nuova vicinanza.
Da Joseph Ratzinger, "Immagini di speranza: Le feste cristiane in compagnia del Papa", Edizioni San Paolo 2005